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Quelli, Sì… | Franco Corsetti

Il giorno sta scivolando verso la sera, e mi trova ieri, come troppo spesso in questi ultimi tempi. Anche oggi, minime novità che, come i ruscelli si spengono in un fiume, ormai le accetto con rassegnazione. E’ finito il tempo del rio chiacchiericcio, quello che, all’animo gentile, suscitava curiosità e un pizzico di felicità. Quello che avvisava, con tanto brio, il cambio della stagione, la natura che mutava abito, e una farfalla che volteggiava verso chissà dove, chissà perché. Cala lentamente il sipario mentre i colori e le luci, a poco a poco, si spengono in un cielo imbronciato che stimola i ricordi, la principale attività, l’impegno maggiore da quando lo specchio ti rimanda ciò che sei, e non ti dice dov’è finito ciò che eri. E’ questa la stagione delle memorie, delle incertezze che già avevi notato nei nonni, e poi nei genitori: una data sbagliata; un nome scambiato, un episodio con qualche vuoto. Capivi che l’età aveva giocato loro qualche scherzo anche se, poi, si riprendevano; ricollegavano i fili del discorso e si sentivano fieri di averlo fatto anche se – lo capivi – dimostravano una punta di amarezza perché capivano bene gli anni erano passati, e tanti. Dalla finestra, vedo aumentare lo scolorire della luce, pressata da nuvole grigie, ingombranti, che si muovono con una lentezza esasperante. Mi sorprendo spesso, ultimamente, a scrutare il cielo alla fine della giornata con un’attenzione che non avevo mai avuto prima. Il declinare del giorno, ieri, era l’anticamera di una sera spesso brillante come impegni, con un appuntamenti che ti mettevano di buon umore, attesi, e per questo più intriganti. Amici, conoscenti, una festicciola, una cena: l’agenda era piena di ritrovi, d’incontri, tanto che, a volte se non spesso, quelli si soprapponevano, e dovevi – a malincuore – scegliere. La sera, che scivolava spesso nella notte, dava un contenuto forte a tutta la giornata; ed era difficile, quasi impossibile, saltarne un’uscita perché rappresentava il clou del giorno che stava finendo, e che ti salutava, se non con gioia, almeno con la speranza che succedesse qualcosa di piacevole, di divertente, che il rimanere in casa non ti poteva dare. L’imbrunire è un movimento lentissimo ma inarrestabile anche se, fermandoti a fissarlo, a volte sembrerebbe immobile. In realtà, sono io immobile perché inseguo qualche ricordo, e nessuno di quelli riesce a prendere il sopravvento sugli altri. E questa è una fortuna, lo si deve riconoscere, perché quanto più hai vissuto la tua vita, tanti più sono i ricordi che hai collezionato. Come tutte le collezioni, ovviamente, hai stabilito – in fondo – una classifica speciale che, di norma, dovresti rispettare. Un giorno che ti senti più leggero, c’è pronta una ricordanza speciale: in un altro, magari più freddo, ecco che ti aiuta, rinnovellandolo, un altro fatto lontano, e così via. Ma stasera, no, e non solo stasera. Un periodo un po’ strano, vuoto, confuso, che non fa emergere niente, e in questo caos un po’ mi perdo. Sono passati alcuni minuti e le nuvole sono diventate più scure, con qualche lembo più chiaro, e il crinale che ho davanti lascia evidenziare solo gli alberi che lo ricoprono. Rami intricati, indistinti come i capelli scompigliati dal vento, ma qui di un colore bruno, quasi tenebroso, doloroso. A volte si accende una rimembranza, un lampo che ti riporta ad un episodio lontanissimo, e il cuore si solleva, e la mente cerca di chiarire, di distinguere, di scegliere i pochi fotogrammi rimasti. E’, di solito, in estate; è il sole, come sempre che accende questo breve ma intenso episodio che è rimasto dentro, e che ti commuove. Ti commuove perché hai un po’ perso la sicurezza, la spavalderia, le certezze che avevi un tempo, quando “ieri” lo avevi messo da parte mentre “oggi” vivevi con goliardia, con una fame di conoscenze e di esperienze che ti proiettavano a domani, quel domani che darà risposte alle tue domande, ai tuoi desideri. Un lampo, magari con i contorni un po’ sfumati e l’atmosfera un po’ fredda ma, perbacco; sono passati tanti anni, tanti, troppi. Vorrei rinforzare quel lampo, ma è una foto in bianco e nero; ci sono sorrisi, quelli sì, che hanno la conferma proprio da una foto in cornice. E c’è una cartolina, con un paesaggio, che spesso guardo, e che mi conforta e mi conferma del fatto che è un luogo che ho conosciuto, in cui ho vissuto, che mi ha lasciato momenti indimenticabili di un’esperienza bellissima ma irripetibile. Intanto, tutto diventa più scuro, impalpabile, immobile. Il lampo si è spento e, come un vecchio lungometraggio, rimane fissa una sola immagine, e scompaiono volti, luci, emozioni che faccio malissimo a voler riproporre. Il passato non torna più, è vero, e il futuro? Perché, ora, il futuro non è più quello di una volta, quello fatto di colori sgargianti, di occhi che brillavano ad ogni scoperta, di gambe scoppiettanti, mai ferme. Oggi, il futuro, il mio, è quello che è. Una vaga promessa di un certo benessere; un minimo di buona salute; di pochi, veri, grandi amici sul volto dei quali misuri la tua età. E’ inutile dire, o sentirsi dire: sei sempre lo stesso. Una bugia a fin di bene, e lo sa chi te lo dice, e lo so anch’io, che non siamo più gli stessi. Non più orizzonti sconfinati, magari utopistici, ma che mettevano carburante nel progettare, e realizzare, un sogno nato anche per caso. Perché il mondo è grande, ed è bello viaggiare, conoscere, capire: avanti, avanti, c’è posto per tutti! Prima, la terra sotto i piedi bruciava, e volevamo essere sempre in prima linea, mai secondi. Abbiamo corso, abbiamo visto, abbiamo raggiunto qualche mèta. Abbiamo vissuto, infine, chi bene, chi meno, ed ora sopraggiunge, lentamente, la sera. E’ il tempo del vespro, e tutto si raccoglie, si fa quieto, anche silenzioso. Il colore del cielo si stacca da quello della costola della collina; è un bianco ed un nero dove scompaiono i particolari, le sfumature, le sottigliezze. Un po’ divago, in questi momenti, perché si fa luce, dentro, uno struggente ricordo lontano; uno di quelli, più di tanti altri, che vorrei rivivere e, nello stesso momento, si presenta la stessa domanda: vorresti tornare indietro con tutta l’esperienza che hai accumulato? Oppure, ritornare in quella esperienza senza la memoria di oggi? E’ un dilemma, piccolo piccolo, che mi pongo sempre quando apro questa finestra, e al quale non so dare una risposta definitiva. Così, accumulo ancora dei “se” tra i tanti che mi accompagnano da anni. Com’è brutto stare chiuso tra quattro mura mentre tutto te stesso vorrebbe uscire, volare, magari seduto su una macchina del tempo. Quella, già è stata pensata da alcuni romanzieri: chissà, forse tra le tante diavolerie contemporanee, la scienza potrebbe crearne una, ma penso sarebbe una tragedia! Meglio scendere, e guardare ancora fuori dalla finestra.

So, che dietro il crinale, c’è un paese; poi, una città; il mare, e mi sforzo di organizzare un modesto pellegrinaggio, salutando ciò che incontro nel percorso che sto facendo. Posso anche seguire la strada normale perché l’autostrada è sì più veloce, ma non puoi distrarti, e così ti mancherebbe quel contatto, anche se solo visivo, di qualcosa che ti riporti a ieri. Un edificio, una chiesetta, una salita e poi con la sua discesa. Ecco, proprio questo particolare è quello che ora preferisco perché, mentre l’ascesa si fa sempre più angusta, chiusa, quasi cieca, appena raggiungo la cima, dopo pochi metri, lo sguardo si apre al panorama sopra al mare. Laggiù, già t’immagini la sabbia, l’acqua, le barchette che hanno rese felicissime quelle vacanze con i nonni, tanti, tanti anni fa. Finito questo episodio, ritorna davanti ai miei occhi il muro nero, dove si ritirano, scompaiono quelle villeggiature popolari, quei barlumi di felicità che teneva alta la fiamma della speranza. Speranza che quel sentimento rimanesse sempre con te; ti accompagnasse ovunque saresti andato; alzasse il tuo morale, e l’ottimismo carburasse bene. ahimè, quante noie al carburatore! Alcune le mettevi in conto; si sa; l’usura, dopo un certo chilometraggio, ti costringe a cambiare il pezzo, così come il ripetere gli stessi gesti fa indebolire alcune parti del corpo. Ma non li puoi cambiare. Cominciano così quelli che il mio carissimo amico Lucio chiamava “acciacchi”. Sono gli inizi di ciò che inevitabilmente succederà nel trascorrere del tempo. Prima gli occhi; poi l’udito; uno scricchiolìo al ginocchio e anche, stranamente, l’olfatto. Questo muro nero che ho davanti non mi fa più volare. Le nubi ora sono minacciose, presagi di pioggia, e anche di vento. Abbasso l’avvolgibile: è l’unica difesa che ho. Mi chiudo, e metto da parte le fantasie ed i ricordi, che hanno bisogno di luce, di sole, per ritornare con la mente alle gioie che ho provato, e che vorrei mi riscaldassero ancora almeno per un po’. Si chiude la giornata, ormai. Gli orari sono quelli, sempre, ai quali obbedisco d’istinto, senza entusiasmo, per sopravvivere. Mi attendono lunghe ore tutte uguali, o quasi. Le novità, come le sorprese, col contagocce, sempre sperando che siano spinte da un venticello positivo; da un’arietta che somigli a quella di decenni fa, annunciatrice del cambio di stagione, di una primavera o, meglio, dell’estate. Eh, altri tempi! Qualcuno dice che le stagioni sono sempre le stesse, sempre uguali, ma non è vero, sicuramente. Ma noi umani siamo fatti così: non riusciamo a contentarci di nulla. Da bambini, catturare una farfalla era il massimo della felicità; poi, volendola mostrare ai genitori, quella se ne volava via, e quanti lucciconi! Così, nel cammino della vita, si rammentano poi, in fondo, quante gioie che sono volate via per tanti motivi. Ora sappiamo che avremmo dovuto assaporare meglio quel poco di bello che abbiamo avuto, ma è tardi. Le farfalle ritornano, con la bella stagione, colorate e svolazzanti, che seguono percorsi strani e improvvisati. Noi, invece, aggiorniamo il calendario, mese dopo mese, e abbiamo ormai dimenticato come, tanto tempo fa, si volava sopra un bel prato verde, e poi si posavamo, delicatamente sui suoi fiori. Quelli, sì, che erano giorni ….