Sono trascorsi quarant’anni e sembra ancora di assistere a quella finale di Coppa dei Campioni tra Roma e Liverpool. Era la sera del 30 maggio 1984. Un giorno dal punto di vista meteorologico che lasciava presagire l’imminenza estiva.
In tribuna sedeva anche il presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini circondato da circa 70000 spettatori. La Roma affrontava il Liverpool indossando maglia e pantaloncini bianchi, mentre la squadra inglese si presentava con i suoi colori tradizionali.
Furono i calci di rigore che sancirono la vittoria del Liverpool. Proprio per questa sorte, che nessuno avrebbe minimamente immaginato considerando il valore agonistico delle due squadre, la finale tra Roma e Liverpool rimase impressa negli annali del calcio.
Quarant’anni dopo, Francesco Vincenti, calciatore della Roma, oltre ad aver militato, tra l’altro, anche nel Milan, Bologna, Monza, Brescia, Pistoiese, Ascoli, Lecce e Como, pone alla nostra attenzione le sue emozioni di quella serata storica.

D. Ripensando alla storica finale di Coppa dei Campioni tra Roma e Liverpool, quali ricordi affiorano nella sua mente?
R. «Ricordi deludenti, nel senso che giocando la finale di Coppa dei Campioni, dovevamo giocare meglio e sfruttare di più le occasioni. Eravamo tutti amareggiati perchè eravamo consapevoli di aver buttato via una grande opportunità». 

D. In quale clima la sua squadra si preparò a quella partita?
R. «Iniziammo il ritiro sette giorni prima a Cavalese e faceva molto caldo. Noi, giocando la domenica, andavamo in ritiro generalmente il sabato precedente. Eravamo scesi in campo coscienti di fare il risultato, però, come sappiamo, le finali sono sempre partite strane. La gente e i tifosi ci davano già per vittoriosi, ma alla fine è successo quello che tutti sappiamo, perdemmo ai rigori giocando male. Fu una grande delusione».  

D. Secondo lei, dal punto di vista tattico la Roma meritava di vincere?
R. «Tatticamente avevamo giocato sia tutto il campionato che tutte le partite europee per accedere alla finale sempre allo stesso modo. La squadra si esprimeva in quel senso e non avemmo nessun problema. Giocavamo già a zona e in quel periodo non c’era quasi nessuno che lo faceva. Avevamo anche dei valori interiori assai importanti. Però il calcio è così. Noi, ripeto, giocavamo così. Poi dobbiamo considerare che giocavamo contro una grande squadra, il Liverpool, che era abituata a disputare le finali mentre noi no».   

D. A suo tempo fu motivo di discussione il rifiuto di Falcao a calciare uno dei rigori decisivi. Trascorsi 40 anni come valuta il comportamento di Falcao?
R. «Devo essere sincero: tantissimi giornalisti e tante redazioni nel corso degli anni mi hanno contattato per questo episodio. Io ero proprio davanti a lui quando disse: “Io non lo calcio”. Capii che aveva male a un dito di un piede. Però a pensarci bene, essendo una finale, io l’avrei calciato. Potevo capire un ragazzo, ma Falcao doveva calciarlo. Poi ne sono state dette tante di cose, qualcuno sosteneva che non era nella lista tra i rigoristi se la partita si fosse conclusa con i calci di rigori. Devo però precisare che il nostro allenatore Liedholm non aveva una lista di chi doveva battere i rigori, anche perchè eravamo sicuri di vincere quella partita. Certo questo atteggiamento di Falcao fu molto strano…».

D. Ritiene che si possono imputare alcuni errori tattico-strategici alla squadra giallorossa?
R. «No assolutamente. Noi siamo scesi in campo per vincere visto che giocavamo anche in casa. Avevamo disputato un grandissimo campionato giungendo secondi ed eravamo giunti alla finale di Coppa dei Campioni. Anche in Europa abbiamo giocato sempre allo stesso modo e avevamo fatto sempre il risultato. Le finali sono partite diverse. Noi patimmo un po’. Maldera era squalificato e non giocò. Pruzzo durante la partita si infortunò e poi si fece male anche Cerezo. Sono episodi che poi alla fine… Non perdemmo, ma andammo ai calci di rigore e i rigori sono un terno al lotto…».       

D. Vincenzi, cosa ha significato per lei assistere a quella partita dalla panchina?
R. «Io mi riscaldai per mezz’ora tra il primo e il secondo tempo perché c’era Pruzzo che stava male e altri due giocatori che non stavano bene. Ero carico al cento per cento. Poi Liedholm inviò in campo Chierico al posto mio. Ci rimasi male, però in quel momento stavo seguendo la partita e speravo veramente di scendere in campo, ma poi alla fine non sono entrato».
 

D. Insieme a lei sedevano sulla panchina l’allenatore Nils Liedholm, il secondo portiere Astutillo Malgioglio e i calciatori Emidio Oddi, Mark Tullio Strukelj e Odoacre Chierico. Quale atmosfera si respirava?
R. «La tensione non fu durante la partita, ma durante la settimana precedente. Andammo, ripeto, in ritiro a Cavalese per prepararci all’incontro. Rientrammo il lunedì che precedeva di due giorni la partita trovandoci nel pieno tifo. Sostenemmo gli allenamenti sulla sera all’Olimpico a porte chiuse perchè faceva molto caldo, i tifosi erano tutti fuori e la tensione fu veramente tanta. Anche prima della partita quando ci siamo riscaldati si avvertiva questa tensione».

D. Quali furono le reazioni della squadra dopo la sconfitta?
R. «Noi rimanemmo negli spogliatoi fino alle ore 1:30 di notte. Eravamo tutti stravolti, perché era impensabile una sconfitta del genere. Nessuno disse una parola e nessuno fra noi avanzò considerazioni. La settimana dopo disputammo la finale di Coppa Italia e la vincemmo, ma la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni ce la siamo portata dietro per un bel pò…».

D. A dieci anni esatti dalla finale tra Roma e Liverpool, il 30 maggio 1994 ci lasciò il grande capitano della Roma Agostino Di Bartolomei. Tanto si è detto su quella dolorosa scomparsa. Qual è la sua opinione in merito?
R. «Agostino era un buonissimo ragazzo e di poche parole. Si faceva in due, quale capitano, per essere il portavoce tra noi e la società. Non tralasciava niente. Conosceva molti personaggi anche fuori dall’ambito calcistico. Non so cosa passasse per la testa ad Agostino per suicidarsi. La cosa che mi venne subito in mente fu quella che era un ragazzo molto chiuso e con un grande animo. Fu una perdita terribile».