Questa è una domanda che più o meno viene posta, negli anni, a cadenza regolare. Coloro che erano giovani trent’anni fa e oggi sono genitori o insegnanti (o tutte e due le cose) l’hanno sentita nel doppio ruolo di soggetti che il disagio lo hanno vissuto o provocato, insomma.

In realtà secondo me i giovani il disagio lo hanno sempre conosciuto: non c’è stata un’epoca che se ne possa dire priva. Senza andare troppo in là con gli anni, non vivevano forse una condizione esistenziale difficile, tra cambiamenti rivoluzionari e ribellione alle regole imposte dalla società, i ragazzi degli Anni Sessanta? E non avevano forse mille problemi quelli che vivevano durante gli Anni di Piombo, o nei dorati Ottanta in cui la droga ne uccideva migliaia ogni anno e si iniziava a diffondere lo spettro dell’Aids? Oggi forse le prospettive lavorative, climatiche, sociali per il futuro sono assai più nere, ma ogni epoca ha presentato un conto salato a chi usciva dall’adolescenza per entrare nella maturità.

Eppure, forse, una differenza rispetto al passato esiste: la scuola, che spesso rappresentava un punto di riferimento, un appiglio a cui aggrapparsi durante le difficoltà e un veicolo importante di riscatto personale, sociale, economico, ha finito per diventare una causa di quelle stesse difficoltà. Chi fa il mio mestiere si pone continuamente la domanda sul perché sia successo, e le risposte possono essere molte.

La rete è piena di statistiche e sondaggi che fotografano le difficoltà emotive degli adolescenti, spesso legate agli insuccessi scolastici o alle aspettative che le famiglie ripongono in loro, giudicate eccessive. Non più tardi di oggi ho letto di un quattordicenne che si è gettato dal terzo piano di una scuola a Ancona, forse per un brutto voto; per fortuna non è morto, ma la vita per lui e per tutti quelli che gli stanno attorno non sarà mai più la stessa.

Viene da pensare che l’errore più grande commesso dalla scuola sia adeguarsi a ciò che le viene richiesto dal mondo che cambia rapidamente, perdendo di vista il suo obiettivo primario, che dovrebbe essere quello di formare cittadini consapevoli, ma soprattutto felici.

Invece cosa viene chiesto alle scuole? Innanzitutto di produrre risorse: per i settori in cui c’è domanda, nel minor tempo possibile, col minor sforzo possibile. L’idea di una formazione approfondita, che richieda fatica, spaventa i ragazzi, che spesso scelgono il loro percorso di studi non per quello che offre, ma per quello che manca (vedi le lingue classiche), e privilegiano scuole che hanno la nomea di essere “facili”. Va da sé che appena una scuola si rivela “difficile”, di solito dopo poche settimane, iniziano i problemi, e emergono le fragilità.

Le famiglie spesso non hanno modo di aiutare i figli, per tanti motivi; me ne vengono in mente alcuni, come l’assenza di uno dei due, i ritmi e agli orari di lavoro, la distrazione, l’incapacità di considerare i loro problemi come qualcosa di serio o, al contrario, l’abitudine di risolvere qualsiasi problema al loro posto, che non li responsabilizza mai. Questo nella scuola, che è l’ambiente che conosco meglio e da cui traggo tanti esempi, succede di continuo: da quelli che si sostituiscono ai figli nel fare i compiti a casa a quelli che li giustificano anche quando sbagliano.

Fare il mestiere del genitore è complicato, ma lo è ancora di più, probabilmente, l’essere giovani in un mondo che offre poche speranze e poche certezze. E allora quelle certezze si cercano negli strumenti oggi più rapidamente a portata di mano, gli smartphone, che danno l’illusione di sapere tutto e subito, di essere amati e soprattutto di non essere soli.

Ma è, appunto, un’illusione, e io non ho mai conosciuto una generazione più sola degli adolescenti di oggi: me ne accorgo quando ne vedo trenta in fila su un muretto ad aspettare l’autobus e non c’è nessuno che parli col vicino, o che alzi gli occhi dal proprio cellulare per scambiare due chiacchiere con un amico.

Stefania Berti