Gli anni Ottanta rimangono un decennio meraviglioso su più aspetti. Anche il mondo calcio fu prodigo di episodi, di emozioni memorabili e caratterizzato da numerosi protagonisti.
Tra i molteplici calciatori di quegli anni c’era anche lui, il centrocampista Walter Viganò, passato agli annali del calcio italiano per aver indossato soprattutto la maglia grigiorossa della Cremonese per cinque stagioni consecutive (1982-1987).
D. Viganò, in cosa si distinguono i calciatori di oggi da quelli degli anni Ottanta come lei?
R. «Noi calciatori degli anni Ottanta, secondo me, eravamo meno bravi di quelli di oggi perché avevamo più tempo e spazio per pensare e per agire. I calciatori odierni devono essere molto più svegli e avere meno tempo per agire; a livello tecnico sono migliori e hanno la mentalità di fare i calciatori. Noi avevamo meno atteggiamenti da calciatori e si giocava a calcio certe volte senza renderci conto del mestiere».
D. Può parlarci del suo terzo posto quale allenatore italiano più longevo nella categoria Dilettanti?
R. «Ho allenato per 28 anni nel Campionato nazionale Dilettanti, avendo seguito 750/760 circa partite, ed è stato molto bello, emozionante e gratificante».
D. Ha mai pensato di allenare squadre di serie A e B?
R. «Non ci ho mai pensato e non so se è stato un mio pregio o un mio difetto. Mi capita di vedere su Yuotube alcuni spezzoni di partite di quando giocavo. A quei tempi mi sminuivo da solo. Ho sempre pensato di essere stato un buon gregario, ma, invece, guardando questi spezzoni mi meraviglio per aver compiuto certe cose positive. A diciannove anni giocavo ancora in seconda categoria nella squadra del mio paese e sono cresciuto con la mentalità di giocare a calcio per divertirmi e di essere contento se vincevo e dispiaciuto se perdevo. Anche come allenatore mi sono sempre sminuito e, quindi, non ho mai pensato di allenare in serie A e B. L’umiltà va bene, però quando si eccede nell’umiltà è un difetto».
D. Quali moduli e quali stili predilige?
R. «Il sistema di gioco lo devi applicare ai giocatori che la società ti mette a disposizione. Per esempio se disponi di quattro ali destre e quattro ali sinistre che nell’uno contro uno sono bravi, devi giocare con il modulo 4-3-3. Fino a qualche anno fa l’allenatore era giudicato al 70% sul modo di lavorare nel campo. Oggi il fattore che determina la bravura dell’allenatore è cambiato. È più importante come sa gestire il gruppo, il singolo calciatore, l’ambiente e viene meno il lavoro proprio dell’allenatore, che, secondo me, deve essere valutato sul lavoro che svolge in campo. Ci sono tanti allenatori che oggi hanno poche competenze sul campo, ma sono molto più competenti e bravissimi a gestire il gruppo, la società, la comunicazione. Oggi questo è un pregio, non è un difetto. Il calcio negli ultimi quindici anni è cambiato…».
D. Quindi, da che cosa si può desumere il valore di un allenatore?
R. «Innanzitutto una società deve essere matura per capire l’allenatore adatto alle proprie esigenze. Se vuol gestire un gruppo di campioni può scegliere un allenatore come Mourinho o Allegri, ma non scegliere Sarri. Se la società ha esigenze di migliorare il bagaglio tecnico-tattico del gruppo con un calciatore, per esempio, affidandolo a Sarri se vale 6 l’anno dopo vale 8, per cui la società dovrebbe scegliere Sarri. Non c’è l’allenatore perfetto per tutte le società. Se la società ha una squadra, per esempio, con Cristiano Ronaldo, dovrebbe scegliere Mourinho o Allegri. A mio avviso è la società che sceglie il proprio allenatore in base alle proprie esigenze».
D. Dai suoi allenatori ha ricevuto degli insegnamenti?
R. «Quando giocavo io gli allenatori non insegnavano più di tanto. Tutti giocavano con il 3-5-2. C’era l’allenatore più intelligente che vedeva la partita ed Emiliano Mondonico per leggere la partita era il numero uno. L’unica cosa che ho imparato dai miei allenatori a livello umano era tantissimo, a livello tecnico-tattico, giocando con il modulo 3-5-2, mi dicevano soltanto di fare la diagonale quando la palla era dall’altra parte. Il resto era farina del nostro sacco. Ognuno era padrone di se stesso».
D. Ci parli un po’ della sua esperienza calcistica terminata con la maglia del Livorno.
R. «A 19 anni giocavo in seconda categoria a Robecco sul Naviglio. L’allenatore dell’ Abbiategrasso mi vide giocare una partita e mi convocò e continuai a fare bene. Eugenio Bersellini, allenatore dell’Inter, a mia insaputa, mi fece seguire per tre-cinque partite e nell’aprile 1978 il presidente dell’Abbiategrasso mi comunicò il passaggio all’Inter. Dall’Inter sono poi passato alla Salernitana, Sambenedettese, Pisa, Cremonese, Casertana e poi Livorno. Fu un caso avendo giocato fino a 19 anni in seconda categoria e non avrei mai pensato di giocare a calcio ai grandi livelli».
D. Come ricorda e come definisce i suoi due presidenti Romeo Anconetani (Pisa) e Domenico Luzzara (Cremonese)?
R. «Due persone completamente diverse: dalle stelle alle stalle. Quando perdevamo con il Pisa, Anconetani ci inviava a Volterra in ritiro a nostre spese. Quando passai alla Cremonese, ricordo, che perdemmo la prima partita in casa con il Catania e il presidente Domenico Luzzara disse: “Stasera tutti in cascina a mangiare pane e salame”. Due persone completamente differenti».
D. Quale dei suoi campionati disputati ricorda con particolare nostalgia?
R. «Il Campionato 1983/84 con la Cremonese, quando conquistammo la serie A. In definitiva noi calciatori ci divertivamo. Oggi non so se i calciatori si divertono come ci divertivamo noi».
D. Come spiega i numerosi cambiamenti avvenuti nel corso di questi ultimi venti anni nel mondo del calcio?
R. «Le cose da gestire prima erano molte meno. Adesso le cose da gestire per la società, per gli allenatori, per gli stessi ragazzi che giocano a calcio, sono molte di più. Un tempo, il calcio era di meno colori. Adesso il calcio è caratterizzato da tanti colori con il rischio di perdere la testa. Ogni situazione contempla altre mille sfaccettature e l’allenatore e la società devono essere bravi a gestire tutte queste cose».
D. Nella vasta rassegna degli allenatori di oggi, su quali mette l’accento?
R. «Su quelli che danno una impronta alla squadra e quindi i “giochisti”, come Di Francesco, Sarri, Pioli. A me non piacciono né Mourinho e né Allegri, magari vincono con sette-otto campioni; però con un gruppo di ragazzi pagati cento milioni di euro e stipendiati con cento milioni, l’anno dopo, se sono allenati da Mourinho e da Allegri, secondo me, valgono la metà».