Bobby Solo è un “ragazzo” simpatico e divertente di 78 anni che si esibisce ancora in più parti del mondo con l’entusiasmo e l’allegria che lo distingueva nei primi anni Sessanta, quando ebbe inizio la sua straordinaria carriera.
Si appassiona quando lo intervisti e lo ascolti molto volentieri. Bobby Solo è un artista celeberrimo che ama la vita e che può vantare un curriculum “spettacolare”. Infatti spazia dalla ricca discografia alla filmografia, dalle numerose partecipazioni al Festival di Sanremo agli spot pubblicitari.
Figura, inoltre, autore di alcuni libri biografici.
D. Bobby, non ancora ventenne conosce già il successo con la storica canzone “Una lacrima sul viso”, scritta insieme a Mogol. Possiamo definirla il viatico alla sua lunga carriera artistica? E cosa ha significato per lei questa canzone ascoltata e applaudita ancora oggi?
R. «Assolutamente si. Questa canzone in una sola notte fu capace di fare arrivare alla Casa discografica Ricordi 300.000 ordini per acquistare il 45 giri dai vari negozi di strumenti. L’ho composta per mia mamma quando avevo quattordici anni in cucina. Vivevo a Milano e l’ho composta con un altro testo brutto perché non sono un paroliere e poi Mogol ha rifatto il testo. Però la canzone è un ricordo dei miei quattordici anni e di mia mamma e un ricordo di tanta emozione per aver partecipato per la prima volta al Festival di Sanremo al teatro del Casinò. È, diciamo, il mio cavallo di battaglia».
D. Quali sono stati i riferimenti umani e artistici nella sua lunga carriera?
R. «All’inizio è stato solo Elvis Presley perché mi innamorai di una pupetta di quattordici anni, un amore senza nemmeno un bacio, un amore a distanza. Infatti era figlia di un giornalista americano di New York e si chiamava Betsy Mcgurnam. Lei mi parlava sempre, eravamo negli anni ’60, di Elvis Presley. Io conoscevo Adriano Celentano, Mina, Ornella Vanoni e non sapevo chi era Elvis Presley. Però avevo la sorellastra del primo marito di mamma che aveva diciotto anni più di me e viveva in America, la chiamai al telefono e mi inviò tre 45 giri e due vinili di Elvis Presley. Da lì iniziai a strimpellare la chitarra come potevo, perché ero un povero bambino, e a cantare appresso un giradischi a coprire sulla parte di Elvis; così ho iniziato. Dopo ho chiesto a Carlo Stevan di Torino, primo presidente italiano del fans Elvis Presley, mio amico: “Ma Elvis Presley è nato imparato oppure ha preso qualche stile da qualcuno?”. Carlo mi fornì tutti i suoi riferimenti di musica blues, rhythm and blues, musica country, jazz e i nomi di tutti gli artisti dell’epoca che ascoltava Elvis. Acquistai tutti gli stessi dischi che ascoltava Elvis tentando di farmi una cultura su quel mondo».
D. Secondo lei, qual è il miglior ingrediente per mantenere costantemente il successo?
R. «Amare la musica non per i soldi, non per la vanità e la fama, ma solo per la musica e amare il pubblico ed essergli riconoscente. Cercare poi di fare del proprio meglio sul palcoscenico».
D. A quali edizioni delle sue dodici partecipazioni si sente più legato?
R. «Sia all’edizione in cui presentai la canzone “Una lacrima sul viso”, nel 1964, e all’edizione dell’anno successivo con la canzone “Se piangi se ridi”, con la quali vinsi. Furono due impatti emotivi avendo rispettivamente diciannove e venti anni. La canzone “Se piangi se ridi” la cantava anche una band di undici elementi famosissimi in America i “The New Cristy Minstrels”, che avevano due coristi eccezionali, Kenny Rogers, che aveva venduto quattrocento milioni di dischi, e la bionda Kim Carnes. Io ero molto timido, ricordo che quando vinsi Mike Bongiorno mi disse: “Allora Bobby cosa vuoi dire al tuo pubblico?”. Io tremando risposi: “Grazie”. E Bongiorno replicò: “Un vero cowboy è sempre di poche parole”. Io facevo un pò l’americano alla Elvis Presley».
D. Nel 2003 partecipa alle Kermesse sanremese con la canzone “Non si cresce mai”, che scrisse con Giancarlo Bigazzi e interpretò in duetto con Little Tony. Ritiene davvero che non si cresce mai?
R. «Ci sono persone alla mia età di 78 anni che hanno una mente di ventidue e ci sono persone di trent’anni con la mente di sessant’anni. E’ il cervello quello che guida tutta la nostra vita. Quando il cervello decide di essere più maturo anche a ottanta-novant’anni induce a scoprire nuove musiche, nuove canzoni, nuove frasi con la chitarra. Una persona l’età ce l’ha sulla faccia con le rughe, con la perdita dei capelli e dei denti, però se la testa rimane a ventidue-ventitre anni può ancora produrre musica a novant’anni».
D. Nei momenti scuri che la vita spesse volte concede, ha mai pensato di mollare la sua professione?
R. «Assolutamente mai perché la carriera ha avuto delle pressioni basse come le ha avute Gianni Morandi e molti di noi negli anni Settanta, quando sono arrivati i gruppi come i Dik Dik, Equipe 84… Ad un certo momento, negli anni Settanta, l’artista normale da solo è stato affiancato dalle band. Io ricordo in Sicilia a Mondello il pubblico mi mandava in estasi, mi abbracciava faceva le foto anche in quei periodi. Il pubblico non mi ha mai abbandonato».
D. I giovani di oggi che iniziano il suo mestiere cosa hanno in più rispetto a lei? E lei cosa aveva in più rispetto a loro?
R. «La musica classica è immortalata nell’eternità come le statue di Michelangelo al Vaticano. Invece la musica pop, cosiddetta leggera in Italia, è la colonna sonora dei tempi in cui si vive. Nel ’60, dopo la guerra, la gente aveva voglia di dimenticare gli orrori, i milioni e milioni di morti della seconda guerra mondiale e voleva vivere. Voleva andare nelle balere a ballare, voleva innamorarsi e c’era molto lavoro. Noi italiani eravamo un po’ i cinesi dell’Europa. Noi fabbricavamo le lavatrici Zoppas, Indesit… facevamo le televisioni Philips, Fonola e radio Marelli. Vendevamo milioni di prodotti nel mondo. Gli affitti erano bassi e il lavoro c’era per tutti e, quindi, c’era molta allegria e molto romanticismo. In estate invece di ballare avvinghiato ad una donna si ballava il twister con le canzoni di Mina come “La tintarella di luna” e con i “Watussi” di Edoardo Vianello. Nel ’70 Brigate rosse, targhe alterne, congiuntura economica… è arrivato il momento dei cantautori sociali, bravissimi, come Venditti, De Gregori, Dalla… Negli anni ’80 le discoteche hanno dato la musica dance e la trasgressione e così piano piano fino ad oggi. Quello che oggi i giovani cantano è la colonna sonora dei tempi in cui stiamo ora vivendo».
D. In virtù di 58 anni di carriera, 37 album, partecipazioni a vari film, autore di canzoni di successo tradotte in varie lingue e autore di libri biografici, come pensa al futuro?
R. «Il futuro è ottimo. In qualunque posto vado il pubblico riempie i posti, mi vogliono un sacco di bene e, quindi, ho intenzione di produrre degli album molto intimistici, non economici. Certe volte da voci e chitarra, un basso acustico e una batteria può scaturire un colore intimo. Ho intenzione di fare altri pezzi, altri album e altre cose. Le serate ne ho già fatte otto e ne farò un’altra venticinquina durante la prossima estate e sono felice. Ho dei progetti con Franco Pulvirenti, il manager di Orietta Berti, di andare a cantare in America a ottobre e novembre e poi mi hanno richiesto dalla Romania e dall’Albania. Spero solo di avere la forza fisica, anche se lo spirito è giovanile, 78 anni non sono come quarantotto-cinquanta. Pochi giorni fa ho cantato a Nizza due ore e ho cantato in Sicilia a Santa Maria La strada, dove avevo cantato quarantadue anni fa. La piazza era piena, nonostante che avesse piovuto fino alle ore 7 di sera; alla presenza di un pubblico numeroso è stato un successo bellissimo. Il pubblico mi mantiene vivo».