La riforma Gentile fu una serie di atti normativi del Regno d’Italia, prodotti nel ventennio fascista, che contribuì alla nascita della scuola pubblica, anche se molto lontana da come la conosciamo oggi. Prese il nome dal filosofo Giovanni Gentile che la ideò quando era ministro della Pubblica Istruzione del governo Mussolini, nel 1923, e rimase in vigore, con poche modifiche, anche dopo l’avvento della Repubblica.

Obiettivo dichiarato dello stesso ministro non era, come al contrario si potrebbe pensare, l’ampliamento dell’alfabetizzazione e l’aumento della popolazione scolastica italiana, bensì la sua riduzione. La riforma Gentile era figlia di una mai nascosta ideologia classista, secondo cui l’istruzione non era per tutti, anzi, doveva privilegiare i “migliori” (“gli studi secondari sono di lor natura aristocratici, nell’ottimo senso della parola: studi di pochi, dei migliori”), e maschilista, poiché le donne “non avranno mai né quell’ originalità animosa del pensiero, né quella ferrea vigoria spirituale” propria degli uomini.

Ci si potrebbe chiedere, oggi, se il Ministero dell’Istruzione e del Merito, perché col Decreto legge 173 dell’11 novembre 2022 si chiama così, non vada proprio nella direzione voluta da Gentile, quella di premiare i “migliori”. Niente paura. A sentire le dichiarazioni del ministro Valditara no: il significato dell’aggiunta del merito, spiega, va cercato nell’articolo 34 della Costituzione, che sancisce che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».

L’intenzione del Governo è, dunque, lodevole: favorire il merito nel campo dell’istruzione, attraverso la dotazione di infrastrutture di qualità che attraverso la valorizzazione degli operatori scolastici a tutti i livelli, in modo che le scuole italiane tornino ad essere un ascensore sociale per gli studenti, come lo erano negli Anni Sessanta e Settanta. Tuttavia questa dichiarazione di intenti ha generato, come era prevedibile, una serie di polemiche riguardanti tutti quegli studenti che, partendo da una situazione iniziale di svantaggio socioeconomico o cognitivo al merito potrebbero non arrivarci mai, sempre che col termine si intendano i risultati e non l’impegno che si mette nel perseguirli.

In realtà, al momento è presto per formulare giudizi, anche perché grossi cambiamenti o riforme strutturali della scuola come quelle auspicate da Antonello Giannelli, Presidente dell’Associazione Nazionale Presidi, non se ne vedono all’orizzonte: “Una scuola aperta più ore al giorno, con attività extrascolastiche, sport e musica all’interno degli istituti, basta a lezioni verticali, basta a ore e ore di compiti da svolgere a casa il pomeriggio. Basta ai 3 mesi di stop estivo, meglio vacanze più frequenti durante l’anno”. Per il momento le note per il prossimo anno vanno nella direzione di una ulteriore burocratizzazione del lavoro dei docenti, con la creazione ad esempio di figure che all’interno della scuola si occuperanno di orientamento e formazione in modo più stabile e organico.

Vediamo come si applicherà il criterio del merito in questo caso, perché lavorare di più in un ambito che non riguarda specificamente la didattica non sempre significa lavorare meglio. Anzi.
Personalmente, se mettessero un freno alle polemiche che ciclicamente investono la mia categoria, sarei favorevole alle riforme che ne modificassero ritmi e modalità di lavoro. Sarebbe un esperimento sociale interessante. I docenti smetterebbero di essere improvvisamente quelli che lavorano diciotto ore a settimana e si fanno tre mesi di ferie l’anno?

Sono anni che sento parlare dell’eccessiva lunghezza delle vacanze estive o dei troppi compiti a casa, delle lezioni frontali che non vanno più bene e dell’eccessivo peso che viene ancora dato al nozionismo e alle conoscenze, a scapito di una formazione per competenze. Me la rido abbastanza, su questo punto, perché poi a scuola ci sono io, e quanto sia diminuito il peso delle cose che i ragazzi sanno, a discapito di quelle che magari sanno fare, per carità, lo riscontro quotidianamente. E i compiti a casa? Forse non piacciono, ma servono. Per fissare quel che si impara al mattino, attraverso un gesto semplice che sta drammaticamente andando a sparire: scrivere. A mano, a penna, su quaderni di carta. Attivando preziosi processi neurologici e aree del nostro cervello che, se smetteranno di essere utilizzate, finiranno probabilmente per atrofizzarsi.
Con buona pace per il merito e i suoi sostenitori.

Stefania Berti