Non solo è una leggenda e un mito, ma anche un galantuomo da imitare. È la bandiera della Fiorentina, almeno di quest’ultimi cinquant’anni: Giancarlo Antognoni.
Umbro di nascita ma toscano d’adozione, Antognoni, colonna del calcio italiano, sin dagli inizi della sua brillante carriera è entrato nel cuore di tutti gli sportivi. Il suo stile raffinato, i tocchi da fuoriclasse, l’inconfondibile statura umana e l’incondizionata fedeltà alla Fiorentina hanno fatto del numero 10 viola una personalità di enorme prestigio.
Per tanti anni è stato capitano della stessa Fiorentina, squadra in cui ha militato ininterrottamente dal 1972 al 1987, segnando numerosi goal. Inoltre, ha saputo distinguersi anche nella Nazionale italiana vestendo la maglia azzurra per 73 volte in dieci anni circa consecutivi, andando a segno sette volte.
D. Antognoni, che cosa ha significato umanamente per lei trascorrere quasi tutti i suoi anni di carriera calcistica nella Fiorentina?
R. «Ha significato molto perchè quando una persona compie una scelta di vita alla fine è ricompensato. A distanza di tanti anni, oggi mi posso ritenere fortunato di aver compiuto quella scelta. Il fatto di essere amato da una città, da una tifoseria e dai miei ex compagni, che evidentemente hanno visto in me una persona che voleva bene a certe situazioni e a certe cose, mi porta a esprimere soddisfazione per aver fatto tale scelta. Purtroppo mi ha un po’ penalizzato sotto l’aspetto sportivo, ma credo che l’affetto della gente mi abbia ripagato, anche se ho vinto poco con questa squadra».
D. Cosa può dire al mondo di oggi il suo alto esempio di fedeltà ad una squadra?
R. «I tempi sono cambiati. Negli anni Settanta e Ottanta le società avevano più potere sui giocatori e sulle persone e, quindi, c’era un rapporto un po’ diverso da quello che c’è adesso tra il giocatore e la società. Oggi il giocatore è diventato proprietario di se stesso e si gestisce a modo suo. Anche noi eravamo allora proprietari di noi stessi, però eravamo altresì legati a certe tradizioni che oggi vengono a mancare non solo a livello calcistico ma anche in generale. I ragazzi di oggi sono diversi da quelli del mio tempo: hanno un po’ di tutto e possibilità che noi non avevamo e, quindi, ci legavamo di più ai contesti in cui eravamo immersi».
D. Quali sono state le sue grandi soddisfazioni?
R. «Innanzitutto di aver svolto il mestiere che mi è sempre piaciuto, anche se all’inizio è stato difficile. Avevo 15 anni quando sono andato via di casa ed è stato un piccolo trauma, che però mi è servito per maturare. A 18 anni sono giunto a Firenze e, praticamente, ho avuto subito la sensazione che questa città mi avesse accolto nel modo migliore, fatto che molto difficilmente accade a Firenze. Non è cosa facile essere accolti qui come fu per me. I fiorentini sono molto scettici su tutto. Il fatto di essere subito ben voluto mi ha permesso di capire e di rimanere in questa città».
D. E le sue delusioni?
R. «A livello calcistico sono di più le cose positive che quelle negative. Fra quest’ultime gli infortuni che ho avuto e il fatto, per esempio, di non aver potuto disputare la finale al Campionato del mondo in Spagna a causa dell’infortunio che subii durante la semifinale contro la Polonia; poi il non aver potuto vincere lo scudetto con la Fiorentina al termine del campionato 1981/82, che forse meritavamo di conquistare. Comunque ho svolto un mestiere divertente e che permetteva di guadagnare molto e, quindi, sono contento di quello che ho fatto fino ad oggi».
D. Quando le chiedono di raccontare la sua vita calcistica cosa le affiora subito nel cuore?
R. «Affiora il fatto che ho svolto una vita molto bella. Mi sono sposato giovane, a ventitré anni, e tutt’oggi la famiglia che ho costruito in quegli anni è rimasta intatta. Credo che queste siano le più belle soddisfazioni. Nella vita però si annota anche qualche situazione negativa e ci sono comunque delusioni, ma occorre sempre affrontare le avversità nel modo giusto».
D. Come è riuscito a superare i momenti più difficili?
R. «Con la volontà e l’aiuto della famiglia, della gente e dei tifosi, come quando ebbi gli infortuni il 22 novembre 1981 e il 12 febbraio 1984, che superai, ripeto, con la volontà, l’affetto attorno e il desiderio di voler ricominciare e riprendere il mio cammino calcistico. Le piccole delusioni si superano andando avanti con lo sguardo positivo, come ho sempre fatto nei momenti difficili. Insomma, ho sempre cercato di reagire nel modo giusto e questo mi ha permesso di andare avanti soprattutto nelle difficoltà».
D. In cosa davvero si distingueva il suo talento calcistico?
R. «Forse nella naturalezza del mio gioco. Penso di essere stato un giocatore non costruito, ma naturale. Non mi allenavo solo per migliorare, avevo fiducia nei miei mezzi e sono sempre andato avanti con questa prerogativa. Forse, se fossi riuscito a migliorare alcune cose che mancavano, sicuramente avrei potuto dare qualcosa di più. Ma sinceramente non mi dispiace quello che ho fatto nella carriera calcistica e personale».
D. Il 1982 fu un anno particolarmente ricco di episodi nella sua carriera e che culminò con la vittoria dei Mondiali, dei quali fu uno dei protagonisti, segnando, a nostro avviso, un goal valido e purtroppo annullato contro il Brasile. Come lo ricorda?
R. «Lo vivo in modo positivo e negativo allo stesso tempo. Ci furono, infatti, tre episodi importanti. Il 22 novembre 1981, come ripeto, ebbi l’incidente alla testa e rimasi quattro mesi fuori proprio nell’anno in cui la Fiorentina poteva ottenere il massimo risultato vincendo lo scudetto. Sono rientrato nel marzo successivo e ho disputato la partita contro Cagliari, in cui, purtroppo, non abbiamo giocato come dovevamo e non riuscimmo così a vincere, quando, invece, guadagnando la vittoria avremmo potuto disputare lo spareggio con la Juventus, che poi vinse il campionato. Subito dopo iniziò il Campionato del mondo in Spagna e il mancato scudetto passò; la vittoria di quel Mondiale mi permise di migliorare sotto l’aspetto professionale, dandomi più forza interiormente e a livello calcistico. Il fatto di non aver potuto disputare la finale mi ha pesato un po’, perché è il sogno di ogni giocatore arrivare a disputare la finale di un mondiale; io avevo però disputato tutte le altre sei partire del Campionato e quindi non mi posso lamentare. Tuttavia, quel goal annullato contro il Brasile e il non aver disputato la finale contro la Germania mi pesano un po’ ancora oggi…».
D. Mio padre, tifoso juventino, quando lo ascoltava era solito dire: “Antognoni è un campione sul campo e lo è anche nella vita”. È così?
R. «Ma guarda Carlo, io vengo da una famiglia normale che ha vissuto in campagna e poi si è trasferita in città quando avevo otto-nove anni. I miei genitori mi hanno educato in un certo modo. Sono rimasto sempre uguale, anche quando ho raggiunto il massimo per un calciatore. Mi reputo una persona normale e anche oggi, a sessantotto anni, ho questa caratteristica che mi contraddistingue. Se trovo lo spazzino lo saluto e se trovo il “Berlusconi” della situazione lo saluto. Sia lo spazzino che il Berlusconi rimangono per me la stessa cosa. Mi sono sempre comportato così con tutti».
D. Infatti, gode molta autorevolezza da parte di tutti…
R. «Non solo da parte dei tifosi della Fiorentina ma anche di quelli delle altre squadre» (sorride ndr).
D. Diversi sono stati gli allenatori e i colleghi succedutesi nella sua carriera. Quali sono i nomi che hanno lasciato una traccia nel suo cuore?
R. «Nils Liedholm mi fece esordire in serie A quando avevo ancora diciotto anni e lo ricordo con più passione. Poi ho avuto Luigi Radice, Nereo Rocco, Carlo Mazzone, Giancarlo De Sisti, Aldo Agroppi, Eugenio Bersellini; ognuno di loro mi ha dato qualcosa. Però quello che ha inciso di più nella mia carriera è stato, ripeto, Liedholm. Con i miei colleghi sono ancora in contatto sia con quelli della Fiorentina, con i quali ho convissuto quindici anni, sia con quelli della Nazionale, con i quali ho giocato per dieci anni. Siamo sempre in collegamento via social, oppure ci troviamo in qualche organizzazione e iniziativa di ex viola o di ex nazionali e ci vediamo sempre con grande affetto. Ho sempre avuto un buon rapporto con i compagni di squadra e ognuno di loro parla bene di me. Non ho fatto mai prevalere il mio ruolo di capitano o di giocatore simbolo di una squadra».