Il 19 gennaio 2012 moriva Giancarlo Bigazzi, uno dei più noti autori di canzoni di successo del panorama musicale italiano.
Suo lo storico brano Si può dare di più, interpretato dal trio Morandi-Ruggeri-Tozzi.
A ricordarlo è un suo amico e collega Beppe Dati, che vanta un vasto repertorio di canzoni alcune delle quali vincitrici del Festival di Sanremo.
D. A dieci anni dalla morte di Giancarlo Bigazzi, quali sensazioni, sentimenti, emozioni affiorano in lei?
R. «Un grande senso di vuoto e la mancanza di un riferimento serio, vero, preciso, professionale e soprattutto umano. Nonostante quello che si diceva di lui – si vociferava infatti che fosse una persona difficile -, in realtà era difficile come lo sono tutte le persone creative; ma umanamente parlando era una persona che quando avevi bisogno te lo trovavi vicino. Giancarlo è una delle rare persone serie e sensibili che ho incontrato nel mondo della musica. Quando morì il figlio di Riccardo Del Turco mi fece andare con lui a fargli visita per abbracciarlo. Conobbi Riccardo in quella dolorosa circostanza. Anche la particolare vicinanza di Giancarlo all’amico Del Turco, con il quale aveva lavorato, si basava dunque su di un rapporto per niente superficiale.
Dal punto di vista professionale ricordo sempre Giancarlo nel solito posto dove l’ho conosciuto, cioè nella sua villa di Settignano che io amo ricordare come la sua “bottega”. Io sono onorato e felice di aver avuto questa esperienza e di aver imparato il mestiere di autore proprio in quella “bottega”.
Noi di Firenze sappiamo cosa significa una bottega d’arte. Tutti gli artisti hanno lavorato nelle botteghe. Perchè è proprio in esse che, operando insieme agli altri, si impara il mestiere. Nella bottega di Giancarlo si facevano canzoni, anziché scarpe o portafogli, quadri o selle per cavalli e via discorrendo… Facevamo canzoni con amore, passione e dedizione; occorrerebbero ore e ore per raccontare come creavamo. Ancora oggi io cerco di lavorare con quello spirito, anche se non c’è più modo di farlo».
D. Chi è stato e cosa rappresenta oggi Giancarlo Bigazzi per la musica leggera italiana?
R. «Giancarlo Bigazzi rappresenta il passato, ma un passato glorioso, molti dei suoi brani sono infatti ormai degli ever green per il successo che hanno ottenuto. Tutti li conosciamo, da Rose Rosse a Gli altri siamo noi, Gente di mare, Non amarmi, Gloria, insomma a tutte le canzoni di Umberto Tozzi, Marcella, Raf, Marco Masini (quest’ultimi insieme a me), Aleandro Baldi, senza dimenticare l’esperienza incredibile che con Cerruti e Savio ci regalò gli Squallor!
Giancarlo fu un autore che si trasformò in produttore perchè capì che era sempre più difficile “piazzare” i pezzi ad artisti sui quali non avevi nessun controllo.
Era giunto il momento, anzi era necessario, diventare un produttore artistico per poter “guidare” il prodotto in cui credevi. Se non ricordo male due delle ultime canzoni proposte ad un artista non prodotto da Giancarlo portano la firma Bigazzi-Dati-Falagiani e sono Gli uomini non cambiano (Mia Martini Festival di Sanremo 1992) e Cirano interpretato dall’altro mio maestro Francesco Guccini.
Giancarlo rappresenta questo modo di lavorare che oggi non c’è più e che io cerco, a fatica, di mantenere vivo almeno nel mio piccolo cuore di autore».
D. Qual è il suo giudizio storico-artistico sull’attività musicale di Giancarlo Bigazzi?
R. «Giancarlo, è stato il mio mentore. Io nasco come cantautore e avevo come riferimenti ideali Lucio Dalla e Francesco Guccini, per il quale, tra l’altro, ho avuto l’onore di scrivere ben quattro canzoni. Ma fu l’incontro con Giancarlo che trasformò Giuseppe Dati da piccolo “cantautorino” ad autore.
Il mio giudizio sull’operato di Giancarlo è dunque positivo. Professionalmente egli è nato insieme a Franco Migliacci, Claudio Mattone e Totò Savio, a questi primi autori della musica italiana.
Io conobbi Bigazzi grazie all’intraprendenza di Marco Masini, che all’epoca faceva piano bar con un mio carissimo amico: Bob Rosati. “Guarda, Marco, ho scritto alcuni testi, perchè non ci mettiamo insieme e li musichiamo?” gli dissi e lui accettò e cominciammo a lavorare. (Quei testi diventarono le canzoni che tutti conoscono: Caro babbo, Dal buio, A cosa pensi, Le ragazze serie e via discorrendo.) Marco portò la cassetta con i brani a Giancarlo, il quale dopo averli ascoltati mi volle immediatamente conoscere.
Qualche tempo dopo mi consegnò una cassetta audio (lavoravamo ancora con le cassette!) dove vi erano i canti del nuovo disco di Raf eseguiti da Raffaele (come si è sempre fatto e si fa ancora) in “inglese maccheronico”, cioè in un inglese inventato all’impronta dal compositore per “fermare” le note le quali diventano sillabe per l’autore. Ricordo che la prima canzone alla quale lavorai era molto difficile, piena di parole “sdrucciole” e “tronche” com’è anche nella realtà la lingua anglosassone.
La melodia era struggente, mi piaceva molto anche se un po’ triste ma con pazienza riuscii a dimostrare a Giancarlo di essere capace di trasformarla in un italiano che suonava come il provino inserendo nel testo uno degli argomenti che preferisco: il tema degli “ultimi”. Lo intitolai Santi nel viavai e raccontai la vita degli homeless cioè dei barboni. Questo è dunque il brano che mi aprì la porta della serie A canzonettistica anche se quello che mi consacrò come nuovo autore italiano fu Cosa resterà di questi anni ’80, interpretata da Raf al Festival di Sanremo del 1989».
D. In quali canzoni emergono i tratti distintivi della personalità di Bigazzi?
R. «La caratteristica di Giancarlo Bigazzi era anche quella di squamare la lingua italiana in maniera perfetta. Poi il fatto di lavorare molto sulle sillabe e sul suono delle parole, come, per esempio, fece con la canzone Ti Amo che scrisse per Umberto Tozzi. Quel “ti amo ti…”, quel “giocare” con le sillabe-note in maniera così simpatica, facendo diventare la canzone quasi una ninna nanna dolce e delicata, è stata una sua caratteristica. Mi viene in mente anche la canzone Luglio: “col bene che ti voglio” che ricorda Montale di Ossi di seppia “…e andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia ecc.” un rimare con assonanze delicate. Oppure Ci vorrebbe il mare, la sua prima canzone del disco di Marco Masini, una canzone bellissima che possiamo paragonare a Margherita di Cocciante. Questo senso di delicatezza credo che sia una caratteristica inconfondibile del suo stile artistico. Ma la grandezza di Giancarlo stava anche nel riconoscere il bello e il merito degli altri».
D. Nella vita di Giancarlo Bigazzi, a suo avviso, ci sono state delle delusioni?
R. «Ha trascorso dei momenti difficili quando le cose iniziarono a cambiare. Comunque, in tutto ciò che ha lavorato e in tutto ciò che ha realizzato è giunto al massimo.
Forse un momento un po’ opaco fu quando scrivemmo la canzone Come passa il tempo, interpretata da Maurizio Vandelli, Lallo Sbrizolo e Tonino Cripezzi e presentata al Festival di Sanremo 1993. Ancora oggi mi chiedo per quale ragione la gente non avesse capito quella canzone. In definitiva racconta che il tempo inganna tutti quanti e rimane dunque per me una canzone che contiene un pensiero che appartiene a tutti noi. In quella occasione Giancarlo rimase molto deluso e sentendosi responsabile dell’insuccesso, ricordo ancora che si scusò con gli interpreti.
Altri momenti dolenti si riferiscono a quando Umberto Tozzi, si allontanò da lui e Raf lo seguì. Successivamente lo fece anche Marco Masini».
D. Come si potrebbe perpetuare la memoria di Giancarlo Bigazzi?
R. «Pochi giorni dopo la sua scomparsa proposi alla moglie e al figlio di realizzare una scuola musicale intitolata a Giancarlo nella parte inutilizzata della villa dove aveva vissuto o in un’altra sede. Anche Marco Falagiani e il dott. Bellini, commercialista di Giancarlo si dimostrarono favorevoli. Però la moglie e il figlio rifiutarono il mio suggerimento di mantenere viva in questo modo la memoria di Giancarlo Bigazzi. Lo avrebbe meritato!».