A seguito dell’ultima tornata elettorale, in Toscana prevalentemente referendaria e regionale, il senatore Vannino Chiti in questa intervista esprime alcune sue valutazioni.
L’esito referendario ha registrato una grande affermazione del SI. Ritiene che questo esito sia significativo e importante?
Quando i cittadini votano, in democrazia il risultato è sempre importante. Una grande maggioranza si è espressa per la riduzione del numero dei parlamentari: 400 deputati, 200 senatori, non più di 5 senatori a vita. I numeri sono quelli tante volte detti anche dal centrosinistra. Basti vedere la commissione bicamerale presieduta da Nilde Iotti o le posizioni del governo Prodi dal 2006 al 2008. A nome di quel governo, se va a controllare gli indirizzi programmatici su Camera e Senato nelle relazioni che, in qualità di ministro dei rapporti con il parlamento e delle riforme istituzionali, presentai alle competenti commissioni delle Camere, troverà esattamente questi numeri. Quello che nella vicenda referendaria ha dato noia sono stati alcuni toni di populismo con cui è stata presentata la riforma. Però bisogna principalmente guardare al merito su cui si decide e i cittadini italiani lo hanno fatto.
Di per sé questo esito determina un sistema istituzionale positivo o deve essere accompagnato da altre riforme?
La riforma di per sé è assai limitata. Non è contro il Parlamento, per la mia esperienza consentirà di lavorare meglio a deputati e senatori, ma da sola niente di più. Il referendum avrà un valore se in questa legislatura solleciterà altre riforme: non solo i regolamenti parlamentari ma una nuova legge elettorale, il superamento del bicameralismo paritario, il rafforzamento del ruolo del presidente del consiglio nell’indicare al Capo dello Stato l’elenco dei ministri e al tempo stesso la loro rimozione, la clausola di supremazia che impedisca al regionalismo di deragliare in atteggiamenti localistici e di contrapposizione allo Stato centrale, come a volte abbiamo visto nel mezzo dell’epidemia sanitaria. Il regionalismo degli anni duemila non può essere la pletora di staterelli del 1800, prima del Risorgimento, addirittura aumentati di numero.
Secondo lei, su questo risultato hanno pesato o no delle posioni partitiche di natura demagogica?
Non penso che abbia pesato molto l’atteggiamento demagogico e populista di alcune forze politiche. O meglio nella mia esperienza ha piuttosto pesato nell’incrementare il No. Molte persone, alle prese con il Covid 19 e con la crisi economica, sono stanche della superficialità di una propaganda fatta solo di appelli non alla ragione ma alla pancia. Non dico che siano archiviati ma secondo me si stanno esaurendo. Molte persone tornano a esigere competenza, serietà, coerenza. Voglio essere netto e chiaro: penso che stiano tramontando da un lato i populismi demagogici, dall’altro le cosiddette rottamazioni che nascondono dietro i soli certificati di nascita la necessità di un rinnovamento inseparabile dalla preparazione, dalla fatica dello studio, dall’impegno ad approfondire i problemi e dalla capacità e voglia di un rapporto costante con le persone.
Le elezioni regionali hanno determinato dei sostanziali rapporti di forza fra i partiti?
Le elezioni regionali bisogna approfondirle nel loro contesto. Generalizzarle sarebbe un errore. Non sono elezioni politiche. Alcune tendenze certo si possono cogliere. La Lega complessivamente appare in calo. La tracotanza del Papete, la crisi di governo in agosto, la pretesa di pieni poteri da parte di Salvini hanno secondo me rappresentato un boomerang. I candidati di una destra reazionaria non hanno il gradimento neanche dell’elettorato moderato di destra. Porsi contro o in alternativa all’Unione Europea porta in un vicolo cieco. Nessuna nazione europea da sola può affrontare emergenze sanitarie o ecologiche, la sfida di un nuovo sviluppo e del diritto a un lavoro degno per tutte le persone e soprattutto le giovani generazioni. Né può avere una voce autorevole e ascoltata nel mondo globale. Dopodiché, ripeto, le elezioni sono state regionali. Leggiamo i dati elettorali per quanto ci riguarda in Toscana. Cerchiamo di comprendere i motivi di chi non ci ha votato, la spinta anche di valori di chi magari in extremis ci ha rinnovato la fiducia. Secondo me c’è un popolo di sinistra e progressista che ci chiede, ci ha chiesto con il voto, una sanità a indirizzo e controllo pubblici, un diritto universale all’istruzione, uno sviluppo ancorato all’ecologia e in grado di garantire l’occupazione, la salvaguardia dei fondamentali diritti umani, la realizzazione di una cittadinanza comune per tutti, con diritti e doveri condivisi, rispettati, assicurati. In sintesi: rinnovare ma conservando i fondamenti di quel modello toscano, istituzionale, sociale, civile non solo politico che ha mostrato sul campo la sua diversità da altri modelli, in particolare da quello costruito in Lombardia.
Carlo Pellegrini