In via Cairoli, tra l’antica bottega di Tullio Bernardini e quella dello stagnino Disperati, il sabato mattina faceva la sosta di fine corsa una corriera panciuta e verdeblu come una ranocchia. Era la corriera della Mena (diminutivo di Filomena) che faceva servizio da Pescia alla Montagna e viceversa, autisti i due figli maggiori Rolando e Angiolino. Viceversa -mi disse un giorno Varo, ultimo maschio (aveva più o meno la mia stessa età, scomparso prematuramente), prendendomi bellamente in giro- era un paesino posto tra la Chiesina Uzzanese e il Ponte Buggianese o Vattelappesca. In quel tratto la corriera sostava soltanto il sabato, mentre gli altri giorni la sosta la faceva in cima di piazza a lato del palazzo comunale, e sbarcava quattro o cinque ragazzi che frequentavano l’istituto tecnico e altrettante ragazze del conservatorio di San Michele. La domenica faceva due corse: una per portare gli spettatori al cinema Splendor, in tempo per il primo spettacolo delle due e mezzo, e un’altra per riportarli a casa la sera. Ma il sabato era tutta un’altra musica. Arrivava stracarica di viaggiatori e si fermava in via Cairoli, nel tratto indicato, perché in piazza si teneva il mercato settimanale e di cima fino in fondo era occupata dai banchetti degli ambulanti. Costoro avevano diviso il nostro paese in varie zone. Il mercato principale, coi banchi di tessuti, abbigliamento, cavallini, trombette, fucili a tappo, automobiline di latta e di legno, formaggio (mi ricordo il Pollastrini), alimentari, collane, spille, braccialetti e anelli per tutte le tasche, e così via, si teneva in piazza Mazzini. All’inizio del ponte del Duomo, nell’attuale piazzetta Gramsci, dov’era la Banca d’Italia, avevano preso posto i banchetti che vendevano le scarpe e in fondo alla sdrucciolo quelli che vendevano gli oggetti casalinghi e ancora scarpe. Verdure e frutta in ruga degli Orlandi, il pesce nella sua piazza che si chiamava appunto piazza del Pesce, in prato si vendevano granaglie, castagne e farina all’ingrosso, e in piazza di Santo Stefano era tutto un cinguettio perché era il luogo in cui si teneva periodicamente il mercato degli uccelli.
I montanini avevano da acquistare le loro provviste settimanali, ma prima di ogni contrattazione era d’obbligo farsi barba e capelli per ben presentarsi con la giubba di velluto marrone o verde marcio, e taluni, arrivato il freddo, con la cappottina lunga fino al ginocchio e col bavero di pelle di coniglio, con la zuava di fustagno spigato, un feltro in testa e tra gli scarponi e l’orlo dei calzoni i gambali rigidi neri o marroni. Le donne indossavano un gonnellone lungo fino ai piedi, il grembiale e la pezzuola in testa, l’unica nota colorata coi suoi quadroni rossi e blu.
Erano già arrivati da due ore e passa coloro che portavano al mercato la loro merce da vendere, castagne e farina in genere. Avevano fatto brutte alzatacce quando la luna non aveva ancora nessuna voglia di sgombrare. Per quelle stradette sassose e polverose, viaggiavano a cassetta del loro barroccio, con la torcia a sinistra, tirato dal cavallo che conosceva la strada a memoria, senza paragone coi moderni navigatori satellitari, sicché il conducente poteva stare col capo reclinato sicuro che sarebbe arrivato a destinazione. E così zampettavano i ciuchi e i muli da soma, coi carichi uno da un lato della groppa e uno di là per bilanciare il peso. I barrocci parcheggiavano in piazza XX Settembre e lungo il viale Forti, dove c’era il maniscalco che dava un’occhiata ai loro zoccoli. Ma appena passato mezzogiorno, ormai gli affari erano finiti. La piazza si svuotava. Gli ambulanti cominciavano a riporre la loro merce invenduta e facevano un po’ di conto. Alcuni montanini erano già ripartiti col loro quadrupede, ma tutti gli altri, in particolare quelli che erano scesi con la corriera, facevano uno spuntino alla Buca, in cima di piazza vicino alla tabaccheria di Ferruccino Brandani, ma chi non si contentava di un semplice boccone andava dallo Stiappino. Il suo cognome era Pucci, ma tutti lo conoscevano con quel soprannome a ricordare il suo paese nativo, Stiappa, appunto. Era il più ameno e il più vivace dei bottegai di via Cairoli. A metà della strada, sulla destra, dove oggi è aperta l’agenzia immobiliare Max, gestiva una trattoria che il sabato mattina faceva il tutto esaurito. Pastasciutta e trippa, abbondantemente incaciate entrambe, erano i piatti più richiesti, annaffiati da buon vino rosso nei fiaschi impagliati, tavolini con la zeppa e tovaglie e tovaglioli a righe rosse e gialle, prezzi modici, e chi voleva allungare fino al giorno dopo la sua permanenza dallo Stiappino trovava anche una camera che lo ospitava. Ripartivano coi loro fagotti pieni di provviste: cesti, canestri, valigie di cartone legate con lo spago, panieri, con le sementi selezionate, strumenti da lavoro e quanto occorre per la terra comprati al consorzio agrario del Giani, tutto issato sul tetto della corriera dov’era arrotolato un telo di incerato, non si sa mai dovesse piovere. La corriera svoltava all’altezza della breve via Pacini, dove in estate sfolgoravano le fette di cocomero sul banchetto della Rossina, e poi era tutta una tirata, su su verso la Bareglia, il Camminone, San Lorenzo, Pietrabuona, il ponte di Gemolano, di qui fino a casa, lungo la Pescia, in attesa del prossimo viaggio di fine settimana. Anche la via Cairoli a questo punto s’era come sgonfiata.
Era una delle più belle e laboriose strade di Pescia dove non mancava nessuna bottega per soddisfare i bisogni altrui: dai negozi di barbiere di Ricciotto e di un anziano ometto chiamato Baoni, poi condotto da Umberto detto Nocciola e infine da Poldino Ciumei, alla Landa fruttivendola, al negozio di alimentari di Cesare Venuti, detto Agrati, aperto nel suo palazzo dove si dice che 800 anni fa i vecchi proprietari, gli Orlandi, ospitarono san Francesco per tre giorni. Al negozio di calzature di Italia Guidi, detta la Bombiccia, alla botteghina di bottoni, spille e spilli, trine, rocchetti di filo colorato, nastri, aghi e quant’altro di Parigina, a un venditore di tessuti, alla tabaccheria di Mariuccia, a Sergio Pucci, corridore ciclista, che riparava biciclette, al macellaio Tongiorgi, alle Bottaini che lavoravano in bianco, alle sorelle Scoti, Antonietta, Giuseppina, Giulia, che insegnavano la dottrina ai ragazzi. Devo aggiungere che la via Cairoli era presidiata a sud dai vigili urbani che avevano la caserma nel breve tratto che congiunge la piazza Mazzini alla nostra via e a nord, nei secoli fedele, motto inciso su un marmo bianco, la caserma dell’arma dei carabinieri, che oggi ha l’ingresso in via Buozzi. Senza parlare degli amici, ma perché non parlarne se in questa via ho trascorso parte della mia fanciullezza e l’intera gioventù? Mario Nucci, Vittorio Casalini, Luciano Capecchi, il figlio dell’appuntato dei carabinieri, che metteva soggezione soltanto a guardarlo, con la lucerna e il suo mantellone blu all’esterno e rosso all’interno (mi viene in mente un altro appuntato, Francesco Altomare, che nel 1938 compì un atto di coraggio, bloccando in fondo al ponte del Duomo un cavallo imbizzarrito che aveva già rovesciato un paio di banchi di calzature). E poi Silvano Pagni, Mauro Vannucci, i fratelli Biagi, Anna Maria Vasile, Caterina, Paola e Arturo Bernardini, i Procissi, Annamaria, Giuseppe e Mariapia Venuti, Ernesto Nucci, Piero Bottaini. E le glorie pesciatine di via Cairoli: Gialdino Gialdini, musicista e fondatore della banda, nato nel 1842 e morto nel 1919 nella casa davanti alla caserma dei carabinieri, e Francesco Puccinelli, astronomo, architetto, ingegnere nato nel 1741, nel palazzo a confine con la via Pacini, dirimpetto allo Striappino. A parte la corriera che il sabato non approda più in via Cairoli (ha cessato il servizio nei primi anni 1960), la via ha perso tanti vecchi bottegai: il barbiere non c’è più, non ci sono l’idraulico, la merciaia, l’Albertina, la Mariuccia, il Venuti col Sarti fornaio e l’aiutante Carlo Spicciani detto Allo che schiavacciavano alle tre di notte, il consorzio del Giani, lo Stiappino, e così via, ed è difficile adattarsi a vedere una strada così poco accogliente, se non fosse per Luca Bernardini che, sulle orme del padre, ha fatto dell’antica bottega uno dei più grandi, conosciuti e apprezzati negozi esistenti a Pescia. Ma quello che manca, e si sente dentro di noi (intendo dire quelli di una certa età) è l’assenza della corriera della Mena, il sabato, il cui servizio è stato assunto dalla Lazzi. Ma i pienoni non ci sono più. I montanini, almeno le nuove leve, figuratevi se vanno in corriera. Hanno le loro automobili di tutti i colori e di tutte le cilindrate, ma la polvere non gliela darebbero mai alla corriera, anche se viaggiasse ancora oggi, perché le strade sono asfaltate e lisce (salvo qualche buca qua e là, altrimenti che farebbero gli accomodatori?). Così ha voluto la civiltà dei nostri giorni, che oltre alla polvere e ai barrocci ha soppresso cavalli, muli e asini.