La scuola, a volte, da luogo di collaborazione si trasforma in luogo di competizione; l’ho visto succedere tante volte, sia tra i docenti che tra gli studenti. Ho avuto colleghi, per fortuna non nella scuola dove insegno da tanti anni, che nel tentativo di tirar fuori il meglio dai propri studenti non si rendevano conto di tirar fuori il peggio. Un senso di superiorità verso chi era più debole, o verso chi frequentava scuole considerate meno prestigiose, o addirittura verso chi, nella stessa scuola, frequentava un indirizzo diverso.

Tra i ragazzi circola spesso una battuta: le sezioni A, B e C non sono casuali, ma sono come le categorie nel calcio, e chi è in C gioca in un campionato minore. A volte è solo una battuta…a volte, invece, non lo è.
Ho avuto colleghi che a forza di dire ai propri ragazzi che erano i più bravi di tutti glielo hanno fatto credere davvero; ma alla fine, quando gli insuccessi sono arrivati, perché prima o poi arrivano per tutti, li hanno colti di sorpresa. Ai ragazzi bisogna dire che si può fallire, non che si è infallibili. Perché le spalle si irrobustiscono di più se si è pronti ad accettare che non si è sempre i migliori, e che sbagliare è umano, e a volte necessario. E se qualcuno non sbaglia, se qualcuno infila un successo dietro l’altro, si perde qualcosa; se non altro l’opportunità di guardarsi dentro e capire se è felice davvero oppure se sta mentendo a se stesso.

Ho avuto come studenti ragazzi molto bravi, e umilissimi, e ragazzi non eccezionali che si credevano fenomeni. Inutile dire che le mie simpatie sono sempre andate ai primi. Sono da sempre una fanatica assertrice dell’effetto Dunning-Kruger, in base al quale persone poco esperte e poco competenti in un campo, che può essere la scuola o il lavoro, sovrastimano la propria preparazione giudicandola, a torto, superiore a quella degli altri; mentre coloro che credono meno in sé stessi, o hanno mille dubbi sul proprio valore e sulle prove che sostengono, solitamente alla fine ottengono i risultati migliori.

Ecco perché l’eccesso di autostima può rivelarsi un boomerang; e noi docenti, che non dobbiamo assolutamente mai minarla in un ragazzo, non dovremmo però nemmeno esaltarla troppo. I Romani dicevano: in media stat virtus. Dovremmo tornare a far nostro questo motto, invece oggi si cerca sempre di adottare idee e posizioni estreme, a qualunque costo, e si critica chi fa della misura e del buonsenso il proprio faro nell’oscurità.

In ogni caso, non è sempre colpa nostra.

Ci sono ragazzi che sono competitivi per natura, e se questo può essere un grosso vantaggio nello sport, perché assicura vittorie individuali o di squadra, a volte nella scuola può diventare un handicap. Gelosie, invidie, dispetti, esclusione; qualche volta chi è molto bravo, e molto arrogante, è anche molto solo. E allora magari inizia a studiare un po’ meno, solo per farsi accettare dagli altri. Oppure coltiva il senso di superiorità che lo contraddistingue, e si perde gli anni più belli, quelli in cui si consolidano le amicizie che spesso dureranno tutta la vita.

Sono le persone che, a vent’anni dal diploma, nessuno invita alle cene dove ci si ritrova tutti; sono le persone di cui spesso gli insegnanti non ricordano il nome nonostante i risultati brillanti, e io ho sempre pensato che sia la cosa più triste che possa succedere a un insegnante, non ricordare il nome di uno studente o di una studentessa con cui si è percorso insieme un lungo tratto di strada.

Io, i miei, me li ricordo quasi tutti, e spesso li ritrovo alle cene; ed è bello constatare che fanno ancora gruppo. Segno che la collaborazione, nel loro caso, ha prevalso sulla competizione. O che erano i ragazzi e le ragazze eccezionali che tanti anni prima ero sicura fossero.