“Non mi dica che non si aspettava di esser convocato. Mi faccia il favore: si tolga quella futile ed anche fastidiosa espressione sorpresa dal volto. Ora le spiegherò tutto, andando, però, per gradi. Si fidi di me quando le dico che, per quanto possa sembrare distorto inizialmente, il mio discorso avrà senso.

Al momento del suo ingresso nel mio ufficio, subito dopo le dovute rassicurazioni, non ho potuto fare a meno di notare che il suo sguardo è caduto, giudicante, sulla mia cravatta. Questo ci aiuta e non poco al fine dell’argomentazione. Come può ben osservare, questa mattina ho optato per un avorio costellato da rettangoli di piccola misura, color mattone. Ma è risaputo che le cravatte sono sostanzialmente universali ed ognuna si presta ad innumerevoli abbinamenti. Insomma, avrei potuto virare su di un rosso corallo, oppure su di un blu marino in richiamo ai pantaloni o, ancora, sbizzarrirmi e preferire un giallo senape. Una sola cosa sarebbe rimasta invariata: il suo sguardo affilato, reso tagliente dall’invidia.

Questo, in massima sintesi, è il fulcro del nostro incontro. Se le buone maniere non mi frenassero, sarei pervaso dall’impulso di definirla “malato”. Sono senza dubbio convinto che la sua condizione sia applicabile in maniera indistinta ad ogni oggetto e situazione. Non oso immaginare quanto logoro e consumato internamente lei sia, come un gesso nevroticamente strofinato sulla lavagna. Ma vede, dopo il pastello, sulla nera lastra stridono le unghie, producendo un acuto e insopportabile suono. Il suo stridente grido interno risulta estremamente seccante ed in nessun modo ignorabile.

Lei crede che qua dentro le cose succedano casualmente? Pensa che i riconoscimenti che qualche suo collega ottiene siano dovuti alla dea bendata oppure ad una velata simpatia? La deluderò, ma cade in errore. A tal proposito, le sottolineo che finché al timone vi sarò io, la strada migliore per ottenere qualcosa sarà sempre il merito e non l’adulazione di chi ha il potere della concessione.

Un atteggiamento come il suo, ai miei occhi, diviene incomprensibile. Se non utilizzasse tutte le sue energie per bramare ciò che hanno gli altri, probabilmente, potrebbe godersi a pieno ciò che lei possiede, materialmente parlando e non solo. Tale comportamento mi infastidisce perché, in modo proporzionale alla sua tremenda attitudine, aumenta la quantità di potenziale da lei sperperato. Niente è orribile come il talento sprecato. Dopo tutto questo tempo dovrebbe aver capito che questo mestiere non si fa per superare il collega della scrivania di fianco, bensì per una vocazione, per un senso di intrinseca necessità della umana natura di esternare certi pensieri. Abbiamo il potere, il dovere di traslare in qualcosa di concreto e di percepibile agli altri quello che ci passa per la mente in una frazione di secondo.

A giudicare dalla sua mimica facciale e dalla rigidità del suo corpo, senza considerare che con le sue nervose mani sta rovinando il rivestimento in pelle dei braccioli della mia poltrona, affermerei che ogni parola rivoltale non l’abbia scalfita. Anzi, probabilmente l’ho offesa. In conclusione, l’esito di questo dialogo risulta nullo, tempo perso, come aver rincorso il vento. Per lo meno posso dire di non aver rimpianti, avendo tentato di ispirare in lei una riflessione a riguardo. Mi trovo, dunque, costretto a ricorrere ad altri metodi per svincolarla da questa sua pena.

Non mi dica che non se lo aspettava. Speriamo che il proiettile non la trapassi, frantumando lo specchio alle sue spalle. Sarebbe uno spreco, non crede? Le anticipo, dunque, che da adesso fino al giorno del giudizio l’unica preda della sua invidia per noi altri sarà la vita”.
Edoardo Sartini