Sono nella scuola da tanti anni; quando ho iniziato ero una ragazzina, e sicuramente ho commesso tanti errori, compensati forse dal sacro furore e dalla passione degli inizi. Ecco, quello credo di averlo trasmesso, ai miei studenti di allora, che ancora ogni tanto frequento, perché me lo dicono spesso. Forse non si ricorderanno molto del latino, ma l’entusiasmo che ci mettevo un segno in qualcuno di loro deve averlo lasciato.

Io faccio parte di una generazione cresciuta nella venerazione verso alcune figure di insegnanti; venerazione che spesso si traduceva in soggezione. La severità era un fatto che nessuno discuteva: gli insegnanti erano quasi tutti molto severi, c’era poco da fare. Severi e distanti. Poi c’era quello che si lasciava andare a qualche battuta, quello più scanzonato; ma erano eccezioni. Bucato a fatica il muro della soggezione, ma spesso ci volevano anni, ci si affezionava a quelli bravi, che poi si portavano nel cuore; perché in qualche modo, nel bene e nel male, avevano influenzato la nostra vita e il nostro modo di essere.

Io mi rendo conto, ogni giorno che trascorro al lavoro, che la modalità di rapportarmi con i miei studenti, rispetto ad allora, è cambiata tanto. Forse perché sono cambiata io, negli anni, o forse perché sono diversi i ragazzi, da come eravamo noi; hanno meno timore degli insegnanti, e meno filtri. E a me questo piace. Mi piace quando mi dicono “Ciao prof” nel corridoio, o quando mi fanno una battuta o un’imitazione. Questo succedeva anche quando ho iniziato: certe imitazioni del mio modo di parlare o spiegare me le ricordo ancora. La differenza rispetto a quando a scuola c’ero io, dalla parte dei banchi, è che noi non ci saremmo mai sognati di imitare un professore davanti a lui; tutto avveniva rigorosamente in segreto. La scuola era certamente un luogo dove si rideva meno e si faticava di più, trent’anni fa, e lo dico senza alcun rimpianto.

A me piacciono, i ragazzi di oggi; o almeno mi piacciono i miei. Non so se tutte le scuole siano uguali, probabilmente no; ma io ho molti studenti affettuosi, molti studenti umanamente eccezionali, che mi raccontano i loro problemi sentimentali o familiari, e si aspettano un consiglio, da me, o una qualche forma di vicinanza. Per me essere la loro insegnante è anche questo; mandare un messaggio la sera alle dieci se sono mancati a scuola per qualche motivo grave, o per vedere come stanno se fanno troppe assenze.

E pazienza se non sapranno mai quando è caduto l’impero romano d’Oriente o chi fosse Cesare Beccaria. Io ho un enorme debito di riconoscenza con i miei studenti, che non riuscirò a saldare nemmeno in tutti gli anni che mancano di qui alla fine della mia carriera. Non c’è giorno in cui non li ringrazi per l’affetto che mi hanno dimostrato nell’ora più buia; e forse questo, più che un articolo, è il mio modo di dir loro grazie. A quelli di ieri e a quelli di oggi.

L’altro è esserci; se hanno bisogno di parlare o sfogarsi, e se mi vogliono parlare dei loro problemi. Ne hanno tanti, qualche volta seri, qualche volta no. Un insegnante deve occuparsi anche di questo, se vuol fare bene il suo lavoro, o almeno io la penso così. Io continuo sicuramente a fare tanti errori; nel valutarli, sicuramente, o quando non mi accorgo se ci sono dei problemi in classe, o se qualcuno di loro sta male pur senza volerlo mostrare. Sono errori di cui mi rammarico, perché quando si lavora con le persone bisognerebbe essere sempre attenti a ogni dettaglio, a ogni sfumatura. E bisogna sempre mettersi in discussione; non siamo infallibili, e ogni tanto, anche se ce la mettiamo tutta, il nostro modo di insegnare va cambiato o rivisto. Questo, per le persone abitudinarie, è l’aspetto più difficile; adeguarsi agli altri e alle contingenze che cambiano di continuo.

Ma c’è un sistema, per capire se il nostro modo di insegnare funziona. È la cena degli studenti di vent’anni fa a cui ti invitano; è una tua ex studentessa oggi quarantenne che vive a Milano ma è di passaggio qui che ti invita a bere un caffè; è il messaggio pieno di affetto che qualcuno, a cui hai insegnato la bellezza di Catullo e Orazio mille anni prima, ti scrive la notte di Capodanno.

Io continuo a sbagliare; ma forse, in fondo, qualcosa di buono devo averlo fatto.
Stefania Berti