Il 30 marzo di quest’anno è entrata in vigore la Legge Sasso, dal deputato della Lega Rossano Sasso primo firmatario, che inasprisce le pene per chi aggredisce o offende professori e personale scolastico ATA. L’obiettivo dichiarato della legge è quello di aumentare la sicurezza nelle scuole e scoraggiare l’uso della violenza, dal momento che negli ultimi anni si sono verificati incidenti, anche gravi, soprattutto negli istituti superiori (ma non solo); come quello della professoressa colpita con un coltello a Varese quasi un anno fa o quello del professore percosso e insultato in un istituto professionale della provincia di Milano. Cosa cambia?
L’aggressione a un docente è punita con la reclusione da 7 anni e mezzo a 12 anni invece degli attuali 5 anni, mentre l’oltraggio è punito con la reclusione da 4 anni e mezzo a 6 anni invece degli attuali 3. Inoltre, è stato creato un Osservatorio nazionale sulla sicurezza del comparto scolastico, verranno progettati percorsi formativi di sensibilizzazione per studenti, docenti e personale scolastico e sarà istituita la Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nelle scuole (15 dicembre).
Queste misure, lo dico senza mezzi termini, sono esclusivamente sensazionalistiche, e nel pieno stile della Lega trasformano in un’emergenza quello che emergenza non è, esattamente come avviene per l’immigrazione. La violenza a scuola non è aumentata negli ultimi due anni; ma la politica si accorge soltanto oggi della sua esistenza, e la cavalca. Forse l’esposizione mediatica, fatta dai protagonisti stessi che la perpetrano o, in qualche caso, la subiscono, fa sembrare il fenomeno di proporzioni più grandi di quelle effettive, ma la mia sensazione è che si voglia fare di questo tema un cavallo di battaglia politico in un periodo in cui il consenso per i cavalli di battaglia tradizionali – vedi la sicurezza – è in calo.
La Legge Sasso è, nella mia opinione, molto punitiva e poco costruttiva, come spesso sono le norme che si abbattono sulla scuola italiana; cerca di scoraggiare certi atteggiamenti attraverso un inasprimento delle sanzioni, ma quando si va a vedere cosa faccia in concreto per creare le condizioni affinché questi comportamenti non si verifichino si scoprono tante sue debolezze, e l’assenza di un disegno lungimirante. La sanzione, in altre parole, crea immediatamente un aumento di consenso politico, fa pensare che chi governa abbia un piglio decisionista e efficace, che risolve i problemi.
Fare progetti sulle lunghe distanze, invece, non porta voti, e inoltre è molto più faticoso e complesso. Pensare che la violenza entri a scuola senza che questo abbia un legame con le famiglie, il retroterra, la società da cui i ragazzi provengono è illusorio; ma se non si fa qualcosa per risolvere i problemi di quelle famiglie, quel retroterra e quella società, limitandosi a colpire solo le conseguenze, a me pare che non possa funzionare.
Esprimo la stessa perplessità anche sulla questione del voto in condotta, argomento della Legge 150 che entrerà in vigore tra pochi giorni: tra le misure volute dal ministro Valditara per “ridare autorevolezza” all’istituzione scolastica c’è che nella secondaria superiore non saranno ammessi all’esame di Stato gli alunni con una valutazione del comportamento inferiore a sei decimi. Sarà assegnato un elaborato in materia di cittadinanza attiva e solidale da trattare al colloquio dell’esame, se la valutazione del comportamento risulterà di sei decimi, e il punteggio più alto nella fascia di attribuzione del credito scolastico spettante potrà essere attribuito solo se il voto di comportamento assegnato sarà pari o superiore ai nove decimi.
Il ministro pare ignorare che il curriculum di Educazione civica, nell’esame di Stato, c’è già, anche se orale e non scritto; e comunque la ratio della legge è sempre la medesima, sanzionare a buoi scappati i cattivi comportamenti ma senza fare niente per impedire che si verifichino, ad esempio provando a affrontare il sostrato, spesso di degrado, in cui certi comportamenti germogliano, o mettendo le famiglie nella condizione di risolvere i propri problemi, perché spesso sono proprio quelli la causa della violenza che entra nella scuola.