Ogni tanto, dal mondo della scuola, arriva qualche buona notizia. «Ho firmato una circolare che vieta dal prossimo anno scolastico l’utilizzo del cellulare a qualsiasi scopo, anche didattico, perché io non credo che si faccia buona didattica con un cellulare fino alle scuole medie. E questo ovviamente non significa l’uso del tablet o del computer che devono essere però utilizzati sotto la guida del docente», ha detto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, al convegno “La scuola artificiale – Età evolutiva ed evoluzione tecnologica” che si è svolto qualche settimana fa a Palazzo San Macuto, a Roma.

Giubilo tra i titolari di cartolerie, i produttori di cancelleria scolastica e chi stampa ancora diari e agende navigando da anni in cattive acque. Non è una battuta: a gennaio 2024 è fallita la mitica “Smemoranda”, nata nel 1979, che ha accompagnato molti della mia generazione negli anni del liceo, e attirato contributi famosi: ci hanno scritto Jovanotti, Claudio Bisio, Ligabue e molti altri personaggi pubblici. L’asta è andata deserta, nessuno ha rilevato il marchio e allo stato attuale non si sa ancora che fine farà l’azienda.

Il ministro a dire la verità ha parlato solo del “bambino”, che deve tornare a segnare a penna cosa fare per l’indomani, recuperando il rapporto con la carta e la scrittura manuale che effettivamente negli ultimi anni, complici i supporti tecnologici, si è un po’ perso. Io estenderei però la norma anche alla secondaria, oltre che alle elementari, perché se c’è un’agenzia dove la dipendenza da tablet e smartphone si è fatta più evidente è proprio nella secondaria inferiore e superiore.

Vantaggi e svantaggi si equivalgono, almeno fin quando la connessione internet regge e la corrente elettrica funziona. Se va via la luce, se si guasta il wifi, se il cellulare non prendevince la carta a mani basse, e la tecnologia diventa improvvisamente un handicap.

In condizioni normali, il registro elettronico consente di avere un quadro immediato delle valutazioni, delle cose da fare e degli impegni scolastici, ma ha tolto ai ragazzi la possibilità – che noi invece avevamo – di bigiare la scuola senza che i genitori ne fossero al corrente, o di mentire su un brutto voto, trasformandolo in uno più alto in attesa di recuperarlo davvero. La tecnologia insomma ha tolto agli studenti la poesia di una sana trasgressione alle regole (senza esagerare, sia ben chiaro) e a noi genitori la possibilità di bearci in una sana, riposante ignoranza, che qualche volte ci salva la vita e l’equilibrio mentale.

Per la prima volta lo scorso anno i miei due figli non mi hanno chiesto di acquistare un diario all’inizio della scuola, con la motivazione che tanto non sarebbe servito. Per me è stato una specie di shock culturale, un altro pezzetto del vecchio mondo che boccheggia e poi muore; il diario, una volta, era il primo oggetto scolastico che si comprava, di solito a estate appena iniziata, per non incorrere nel rischio di non trovare più quello della marca che si preferiva.

Qui devo aprire una parentesi sentimentale; io sono della generazione Naj Oleari. Il diario di scuola di noi ragazze aveva la copertina rigida, con fantasie che andavano da piccole api a ciliegie a cagnolini a fiori colorati e motivi che si ripetevano anche all’interno, sulle pagine. All’inizio dell’anno lo spessore era di tre centimetri; a giugno poteva essere anche più del doppio, e il diario si chiudeva a fatica. Dentro ci si scriveva e ci si incollava di tutto; biglietti del cinema e dei concerti, fotografie, articoli di “Tv sorrisi e canzoni” con i testi dei tormentoni del momento, perfino la carta del chewing gum gettata via dal belloccio della classe (l’ho visto succedere).

La decorazione del diario per molte di noi era una liturgia che prendeva tanto tempo; ma era un tempo perfino costruttivo, perché faceva emergere le attitudini artistiche, per esempio, e il senso dello spazio, delle proporzioni e dei colori; ma era anche un tempo che ci si spendeva volentieri, perché il diario era una specie di amico a cui si confidavano quotidianamente gioie e dolori.
Certo, serviva a annotare i compiti a casa e le comunicazioni scolastiche; ma la sua funzione principale diventava quella di registrare passo passo le nostre vite che scorrevano, affinché non se ne perdesse per strada nemmeno un piccolo particolare. C’era, insomma, nell’uso del diario una componente sentimentale che mi pare si sia perduta.

Al registro elettronico non si possono affidare i propri pensieri sul ragazzo che interessa, né scrivervi la battuta di un film che si è amato o i versi di una poesia da cui si è stati colpiti; e forse, non scrivendoli più, si finisce per perderli, o per non dare loro l’importanza che meriterebbero.

Stefania Berti