Home TRA FINZIONE E REALTA' FABRIZIO MARI L’arco di glicine | Fabrizio Mari

L’arco di glicine | Fabrizio Mari

L’aria puzzava di legna bruciata male. 

Alcuni ragazzi stavano pescando nel lago artificiale poco distante dal quartiere dove abitavano. Erano felici. 

Da mezzogiorno nubi scurissime minacciavano piogge e tempeste. 

In un quartiere residenziale ed elegante, non lontano da quella distesa fatta di prati e di campi coltivati vi era una bella casa, abitata da due giovani, Marco e Stefania, entrambi quarantenni. A fare da cornice al loro cancello svettava un curioso arco in legno costruito anni prima da uno zio di Marco, don Pietro, curato di un borgo lì vicino, ma da tutti chiamato Andrea perché suonava strano dire “prete Pietro”. L’arco era tutto coperto da innumerevoli tralci di glicine color viola.    

Nel salotto rischiarato dalla luce del caminetto acceso Stefania si stava abbottonando una camicia arancione, la sua preferita. Stefania aveva gli occhi cerchiati di rosso, le guance livide sotto una leggera abbronzatura. 

Chiunque l’avesse vista per la prima volta non avrebbe esitato a dire che Stefania era bellissima, ma Stefania non stava bene; per la terza volta in poche ore un violento rigurgito acido le salì in gola dallo stomaco. Cercò con tutte le poche forze che aveva di chiamare Marco, ma lui non poteva sentirla, essendo fuori a potare le rose vicino all’arco di glicine.

Si buttò sul divano, pregando che Marco ritornasse quanto prima. Si addormentò.

Si svegliò quando sentì Marco rientrare. Lui non fece caso al suo aspetto orribile e devastato. Eppure chiunque l’avesse vista per la prima volta non avrebbe esitato a dire che Stefania era bellissima.

Come se avesse ricevuto uno schiaffo all’improvviso si riprese dopo quel breve momento di torpore.

« Perché non mi vuoi più? » gli disse sempre stando seduta sul divano.

« Cosa ti viene in mente? » le rispose lui affannandosi a trovare le prime parole che gli vennero in mente.

« Te lo ripeto, Marco, perché non mi vuoi più? » gli buttò in faccia di nuovo quella domanda, tentando di sollevarsi con fatica da quel divano che le stava diventando stretto e scomodo.

Con il volto modificato dalla rabbia pareva ancora più bella e desiderabile.

« Non sopporto l’idea che la mia vita fugga ed io stia qui ad aspettare come una sciroccata qualunque seduta a leggere le notizie melense distribuite sulle pagine dei giornali » gli disse, alzando gradualmente via via che parlava il tono della voce.

Come non contenta di tutto ciò se ne uscì con una delle sue micidiali frasi, che diceva di aver letto in qualche libro, ma che era invece farina del suo sacco.

« Da qualche parte ho letto che nessuno vive mai tutta la propria vita, tranne i toreri e certi preti », disse quasi con voce trionfante, alzandosi in piedi e mettendosi proprio davanti a lui con un certo tono di sfida. 

« Brava » le rispose prontamente, « avvertimi quando hai finito lo spettacolo e ti ricordo che non ho pagato io il biglietto ».

Lei non replicò, anche se avrebbe voluto. Pensò di rispondere solo mentalmente, nel silenzio della sua mente e della sua coscienza. Si diresse verso la finestra con passo incerto e si mise ad osservare l’arco di glicine. I suoi occhi avevano assunto il colore delle lacrime. Pianse senza accorgersene.

« Verrò sempre da te perché dai confini del mondo l’oceano avanza verso la terra » le disse avvicinandosi piano piano e le poggiò la mano sulla spalla con la delicatezza di una farfalla che si posa sopra una foglia, quasi sfiorando i suoi capelli dorati. Lei non smise di piangere. 

« Cosa fai quando ti manco? » gli disse voltandosi di scatto, ancora con gli occhi immersi nell’acqua delle sue lacrime.

« Respiro più forte » rispose prontamente Marco.

« Perché? ».

« Perché voglio prendere anche la tua aria quando non sei qui con me ».

« Oh mamma, non fare lo sdolcinato con me. Sai che non funziona » ribatté Stefania, accennando un tiepido sorriso di circostanza. 

« Ma io sento di amarti » disse con un certo tono serio e convinto che subito Stefania notò.

« Allora dimmelo abbracciandomi senza dire una parola. Abbracciami e basta. E vedi di stare in silenzio almeno per un attimo. Mi piaci quando stai in silenzio » disse lei quasi implorandolo ed abbandonò le sue belle braccia lungo i suoi fianchi, come se fosse pronta a ricevere il suo abbraccio. 

« Ma io voglio parlare con te. Non ce la faccio a stare in silenzio. Il silenzio mi ricorda la morte. E la morte mi fa sempre venire in mente un mio bravo collega in albergo, il povero Michele, che è morto senza dire una parola di quello che sapeva. E Michele sapeva tutto, tutto. Non ho mai sentito dire che un morto abbia mai parlato. Ed io sono vivo e voglio parlarti » le sussurrò quasi emozionandosi.

« Basta, mi gira la testa. Pensavo tu fossi diverso » gli rispose tutto d’un fiato. Si allontanò dalla finestra e con passo incerto si diresse in cucina a cercare del succo di arancia di cui andava matta. 

« Perché ti allontani da me? » le disse Marco, seguendola a testa bassa verso la cucina.

« In che senso? » gli rispose Stefania, versandosi il succo. Adesso il suo volto era cambiato, quasi avesse subito una silenziosa ed impercettibile metamorfosi. 

Chiunque l’avesse vista per la prima volta non avrebbe esitato a dire che Stefania era bellissima.

« Parli troppo, ecco. L’ho detto » continuò lei, asciugandosi col dorso delle dita la bocca.

« Parlo perché mi piace. E mi piaci tu. Mi piace dialogare perché voglio conoscere. E conoscerti » le sussurrò Marco, avvicinandosi un poco a lei.

« Ma te non mi conosci affatto » ebbe la prontezza di rispondergli subito. 

« Ed è per questo che io desidero parlarti » le disse, sperando di chiudere lì il discorso. 

« Va bene, ho afferrato il messaggio, ma non si può sempre parlare. Esiste anche il silenzio. Vieni qui, stupido » e si avvicinò volendolo baciare sulla guancia sinistra. 

« Non chiamarmi stupido » rispose con un tono che nascondeva male il suo sentirsi ferito.

« Dicevo per dire. So bene che non lo sei » gli disse, accennando un lieve sorriso. 

« Vedi come sei? » replicò Marco, pure lui tentando un impercettibile cambiamento del volto.

« Come sono? ».

« Sei adorabilmente bellissima e ti prego non cambiare ».

« Mi stai ora dicendo che io sono stupida perché non vuoi mettermi in imbarazzo di fronte a te, che hai studiato con il tuo amico prete e sai come girare i discorsi e far diventare un ettolitro d’acqua in prezioso Rosso di Montalcino » rispose Stefania con un audace ed insolito tono inviperito. 

« Niente affatto, ti sbagli di grosso » le rispose Marco, ora quasi ridendo apertamente. Gli piacque però quell’uscita improvvisa ed intrisa di una punta di veleno, ma decise di andare oltre.

« Io voglio dirti che potrei amarti se… » proseguì Stefania, come se avesse tutto ad un tratto afferrato un filo che aveva da poco perso.

« Se…? » la incalzò tutto eccitato Marco. 

« Non farmi parlare. Altrimenti potrei dire cose orribili e non te le meriti. Vieni qui ed abbracciami forte, in silenzio » gli disse spalancando le braccia come fanno all’imbrunire i petali del gelsomino notturno aspettando la bellezza misteriosa della notte.

E tornarono di nuovo alla finestra a vedere le nubi scurissime che minacciavano piogge e tempeste.