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Quando il cuore batte per una sola squadra I intervista di Carlo Pellegrini

Per tanti anni un nome celebre impersona l’Unione Sportiva Cremonese. È quello dello storico calciatore Mario Montorfano per più stagioni anche capitano della squadra lombarda.
In questa nostra intervista il difensore grigio rosso, considerato una leggenda, ripercorre a grandi linee la sua mirabile carriera interamente svolta nella Cremonese.

D. Montorfano, nel 1994 terminava la carriera calcistica svolta nella stessa squadra. Pensando alla sua Cremonese guidata dallo studio storico presidente Domenico Luzzara quali sentimenti prova?
R. «I ricordi sono tantissimi. Sicuramente di una Cremonese che era definita “pane e salame” e fatta soprattutto da persone, dirigenti importanti e con lungimiranza. Grande passione, amore, pazienza; in 16 anni, iniziando dalla serie C, ho visto, secondo me, esprimersi la migliore Cremonese dei suoi 220 anni di vita, alternando la serie A e la serie B con campionati vinti e con retrocessioni; e senza dimenticare una semifinale di Coppa Italia. Noi disputavamo allora il campionato di serie B e oggi nel calcio moderno quella semifinale avrebbe acquisito una valenza importantissima proprio perché avevamo eliminato Sampdoria, Verona e Inter, squadre di serie A, ma perdendo poi la semifinale con l’Atalanta nella primavera 1987. Poi vincemmo il torneo Anglo italiano tra squadre di serie B nel marzo 1993. I sentimenti, quindi, sono di gioia, grande nostalgia, ma consapevolezza della fortuna che ho avuto nel vivere quel passaggio incredibile della Cremonese, partendo appunto dalla serie C per ritrovarsi solo dopo qualche anno in serie A con l’allenatore Emiliano Mondonico».

D. Ecco quando nacque la sua passione per il calcio?
R. «Direi da sempre. Da ragazzino, come tanti altri, giocavo a calcio. Giocato a Brescia e giocavo in una società importante e illustre che aveva anche sfornato i due fratelli Dario e Ivano Bonetti e Romano Galvani e che si chiama “Leonessa Brescia”. Sette giocatori di quel gruppo di cui facevo parte andarono al Brescia e solo io andai alla Cremonese in quell’annata. Di quei sette che andarono al Brescia nessuno diventò calciatore professionista. Io, invece, pur giocando in serie C con la Cremonese ebbi il modo di maturare e di iniziare così la mia carriera in una società in cui i giovani erano il fulcro fondamentale». 

D. Quali sono state le stagioni migliori?
R. «Per me sicuramente le miglior stagioni, calcisticamente parlando, sono state quelle a partire dal 1982. Ero già titolare da qualche anno, ma subii un grave incidente nel 1980. Praticamente mi causò la rottura del crociato del legamento anteriore. Non fu ricostruito perché non c’erano ancora le tecniche e mi fu tolto anche il menisco mediale. Mi feci male in un momento in cui giocavo titolare in Nazionale di serie C e in un momento di lancio. Mi voleva, infatti, l’Atalanta, la Juventus…. Purtroppo questo incidente è successo in un momento molto delicato. Però ho avuto la fortuna di riprendere e devo dire grazie anche alla mia volontà e al mio spirito di sacrificio; dal 1982 al 1992 sono stato praticamente titolare, sono stato davvero protagonista e mi sono tolto tante soddisfazioni». 

D. Al termine del Campionato 1983/84 la Cremonese dopo cinquantaquattro anni conquista la serie A. A distanza di quasi quarant’anni da quell’evento quali emozioni prova?
R. «Emozioni inizialmente di incredulità. Eravamo reduci da un campionato esaltante dell’anno precedente, che vide andare in serie A Milan, Lazio e che ci vide protagonisti di uno spareggio a Roma con Catania e Como in cui riuscì a farcela il Catania. Quindi non eravamo degli sprovveduti. Nessuno pensava che potessimo ripetere un campionato così esaltante. Certo, avere in avanti una coppia come Gianluca Vialli e Marco Nicoletti ci ha permesso di fare diversi gol. E poi la squadra era strutturata con un buon centrocampo e una buona difesa e ciò ci ha permesso di ritornare in serie A dopo 54 anni. E pensare che tre anni prima eravamo in serie C. Questo grazie, alla qualità dei giocatori, ma anche all’abilità lungimirante dell’allenatore Emiliano Mondonico».

D. Sebbene la Cremonese evidenziasse un buon calcio, al termine del Campionato 1984/85 la retrocessione fu inevitabile…
R. «Perdemmo di brutto solo contro la Roma in casa per 5 a 0 e perdemmo 5 a 1 a Torino contro la Juventus. Ma, la maggior parte delle partite furono veramente equilibrate. La squadra usciva spesso tra gli applausi, perché dimostrava che sapeva giocare al calcio, ma per l’inesperienza e per valori diversi non avvenne la salvezza; obiettivamente però sul campo disputammo, nella maggior parte dei casi, partite gagliarde e gratificate da un buon calcio».

D. Eppure la rosa annoverava giocatori di un certo livello e un allenatore come Emiliano Mondonico…
R. «È vero, però bisogna dire che rimase la struttura della squadra dell’anno precedente. Arrivarono come nuovi giocatori, e non tutti i titolari, Fausto Borin, Franco Panchieri, Giovanni Mei, Mauro Meluso come terzo attaccante, Alviero Chiorri giocatore di maggior talento al posto di Vialli, e gli stranieri Juary e Żmuda non ebbero la possibilità di incidere per vari motivi; e, quindi, bisogna dire che l’ossatura era composta da Paolinelli, Garzilli, io, Galvani, Galbagini, Mazzoni, Viganò, Bonomi, Nicoletti, Finardi… Era più o meno la Cremonese che aveva giocato l’anno precedente».

D. Quella retrocessione insieme alla Lazio e all’Ascoli consentì alla Cremonese di iniziare un nuovo capitolo della sua storia non le sembra?
R. «L’anno successivo, 1985/86, arrivammo noni in serie B. Ci fu, poi, per la prima volta un cambiamento importante e furono effettuati vari acquisti. Arrivarono infatti i calciatori Citterio, Galluzzo, Bongiorni, Michelangelo Rampulla e dal 1987 si iniziò a disputare campionati di vertice. Al termine del campionato 1986/87 perdemmo purtroppo lo spareggio con il Cesena per la promozione in serie A. Anche quello del 1987/88 fu un buon campionato, in cui ci classificammo al sesto posto. Poi nel 1989 di nuovo in serie A con l’allenatore Bruno Mazzia e dopo aver vinto lo spareggio ai calci di rigore a Pescara contro la Reggina». 

D. Montorfano, ha mai avuto la possibilità di cambiare squadra?
R. «La Cremonese faceva grande affidamento su di me. A un certo punto, nonostante certe offerte da parte di Fiorentina, Lecce, Vivenza, Triestina… la Cremonese non mi mise mai sul mercato perché diceva che in me avevano un buon giocatore, affidabile, eccetera e hanno sempre ritenuto opportuno non vendermi. Perché sapevano che il mio affidamento era importante. Nei miei ultimi due anni, dal 1992 al 1994, in cui ho giocato veramente poco, sono stato tenuto perché per la Cremonese ero un investimento. Nel senso che sono servito a far crescere quei tanti giovani che la Cremonese, a differenza di adesso che non esce nessuno, ha sfornato in quegli anni. Sono stato un pò la chioccia come esempio di serietà, determinazione e grinta. Non sono mai stato venduto soprattutto per questa funzione ed ero un esempio sul campo per i giovani, che tuttora mi capita di incontrare e che mi ringraziano per essere stato uno stimolo per loro, come per me, fu, per esempio, Claudio Bencina all’inizio della mia carriera». 

D. Quali dei suoi allenatori ricorda con ammirazione e riconoscenza?
R. «Li ricordo tutti; io ho avuto il piacere di iniziare la mia carriera un paio di anni prima di Gianluca Vialli, che è stato mio compagno di camera per tre anni e dal quale ho imparato molto perché veramente si vedeva tutto il suo talento. Il primo allenatore fu Dante Fortini, che mi fece esordire. Poi Guido Vincenzi, Emiliano Mondonico, Bruno Mazzia, Burgnich, Giagnoni e Gigi Simoni. Devo dire che tutti in qualche modo hanno valorizzato chi le mie capacità tecniche e tattiche e chi invece le mie qualità umane, soprattutto negli ultimi anni della mia carriera, quando non ero più titolare.
Mi preme di aggiungere questo. Per farti capire la cura con cui la Cremonese sceglieva i calciatori, non solo venivano considerati le loro qualità tecniche, ma soprattutto comportamentali. Prima che essere giocatori eravamo uomini veri. Ancora tra di noi vive un grande spirito di affetto, di ricordi e di condivisione di momenti importanti e spesso ci incontriamo. Addirittura alcuni di loro percorrono quattro-cinquecento km per ritrovarsi e non credo che accada in tutte le società con gli ex calciatori. Un mese fa, perfino l’allenatore Bruno Mazzia si è unito a noi per un pranzo di ritrovo. È l’unico dei miei mister ancora vivente».

D. Ha citato tanti giocatori, perché dalla Cremonese in tanti anni sono passati grandi campioni e grandi giocatori. Può ricordarli alcuni di loro?
R. «Oltre a Vialli, Attilio Lombardo e Alviero Chiorri in 16 campionati ne ho incontrati davvero tantissimi da quelli che hanno giocato con me sin dall’inizio della mia carriera. Nutro un grande affetto per tutti. Con molti di questi, credimi, ci sentiamo e ci vediamo ancora. Poco fa, per esempio, ho sentito Gianfranco Cinello, che fu anche attaccante di Empoli, Avellino, Triestina, Ternana. Poi Andrea Tentoni, Francesco Colonnese, Maspero, Verdelli, Pedroni, Castagna, Gualco… Tempo fa abbiamo fatto visita alla tomba del nostro allenatore Gigi Simoni. Un altro calciatore importante che da noi ha disputato soltanto un campionato, 1989/90, fu lo svedese Anders Limpar che poi andò all’Arsenal dove vinse un campionato. Rimasi meravigliato perché nessuna società italiana lo richiese. Poi Gustavo Dezzotti, Piccioni, Iacobelli… sono tantissimi, credimi».

D. Che idea ha del calcio di oggi?
R. «È un calcio cambiato sicuramente per molti motivi tattici e fisici. Tutto è molto più veloce e molto più tattico in modo quasi esasperato. Si cerca di giocare per non far giocare l’avversario spesso e volentieri. Lo guardo ancora in TV e non mi piace questa spettacolarizzazione, partendo dai giornalisti sportivi, dai cronisti che fanno telecronache, secondo me, inappropriate inventando un gergo calcistico inesistente e terminologie giusto per essere protagonisti: e poi da certi atteggiamenti di calciatori che sono fin troppo esuberanti. C’è poca semplicità e naturalezza. Sembra che sia tutto costruito nei loro atteggiamenti. Mi viene male vedere i calciatori che parlano tra di loro con la mano sulla bocca per non farsi sentire. Vedere i calciatori che scendono dal pullman con le cuffiette e non hanno nemmeno la borsa. Noi ci preparavamo e ci portavamo la borsa. È cambiato, ma manca un po’ di umanità e di semplicità». 

D. Cosa le manca oggi della sua militanza calcistica?
R. «Guarda Carlo quando ho terminato con il calcio giocato, non mi è mancato il protagonismo, l’apparizione sui giornali o la partita. Mi è mancata la vita dello spogliatoio, gli allenamenti e i ritiri, mi sono mancate queste cose. Dopo 16 anni e dopo aver vissuto un certo genere di vita, mi è mancato lo stare insieme con i compagni anche arrabbiandoci, litigando, e il condividere il piacere di stare insieme e di giocare a pallone. Questo mi è mancato tantissimo». 

D. Non ha abbandonato il calcio definitivamente…
R. «Sapevo che avrei fatto l’ allenatore perché sono un maestro elementare mancato in verità. Questa mia qualità, diciamo così, questa mia propensione all’insegnamento mi ha poi consentito per vivere ancora di calcio. Infatti, ho fatto per vent’anni l’allenatore e sono stato anche con grande orgoglio in tre momenti diversi allenatore della prima squadra della Cremonese, seppur nel campionato di Lega Pro. Questo è un vanto che mi porterò sempre dentro perché essere stato giocatore del settore giovanile e della prima squadra e poi allenatore della prima squadra, ha completato la mia carriera in grigio rosso». 

D. Tutto ciò in quanti anni?
R. «Seppur non continui, perché c’è stato un momento di “esilio” dal 2003 al 2008, nel senso che c’è stato un cambiamento della proprietà della Cremonese, sono 34 anni». 

D. Un record irraggiungibile…
R. «Non lo so. Però sicuramente sono tanti anni. Ecco di questo ne vado orgoglioso».