Home TRA FINZIONE E REALTA' FABRIZIO MARI Chiamami con i tuoi occhi verdi | Fabrizio Mari

Chiamami con i tuoi occhi verdi | Fabrizio Mari

Dei tre ragazzi che quel pomeriggio videro qualcuno correre per il sentiero che portava giù al lago e che di lì a poco avrebbero giurato che fosse proprio lei, solo uno, l’indomani, davanti ai giudici della contea, affermò che era proprio lei, la bella K., che quel pomeriggio correva giù verso il lago.

Aggiunse poi, stando in piedi con la mano destra stesa stretta sopra il cuore, che era proprio lei la più bella donna che avesse mai visto in vita sua.

Gli altri due ragazzi che avevano visto correre colei che pure loro ritenevano essere la più bella donna che mai avessero visto non si presentarono di fronte ai giudici perché dopo poche ore furono trovati appesi ignudi sotto il gelso non lontano dal sentiero che conduce al lago. Fu un colpo tremendo per il villaggio il giorno dei funerali dei due ragazzi. Il prete dall’alto dell’altare accusò la cattiveria e la malignità dei preti che avevano sparso nell’aria la nomea che i due fossero un pochino più che amichetti e che morsi dalla vergogna non avessero trovato altra strada se non quella dell’impiccagione.

Un vento leggero mosse i fiori delle corone adagiate sulle bare di legno chiaro.

Un usignolo che nessuno aveva notato prima scese fin quasi a sfiorare le due casse che parevano quasi baciarsi e poi volò rapido via come era venuto, nascondendosi tra le folte e scure coccole di un cipresso.

Il ragazzo superstite dei tre che per ultimo vide K. si morse il labbro fino a farselo sanguinare e tenne stretti i pugni in tasca mentre vedeva volare via l’usignolo.

Dopo quel giorno che fu per tutti tristissimo e dopo che i giudici chiarirono che di K. si erano come perse le tracce, il ragazzo rientrò a casa triste e mogio e pianse perché non credeva affatto che K. fosse scomparsa.

Ritornò dove quel giorno l’aveva vista per l’ultima volta correre e fu proprio lì, così lui almeno credé, che i suoi occhi videro colei che lui avrebbe voluto accarezzare fino all’ultimo dei suoi giorni.

Il sentiero era piuttosto malmesso; lui, proprio lì dove vide volteggiare K. sopra i fiori, rimase scioccato quando si trovò di fronte una distesa di fiori tra i più colorati che avesse mai visto, di altezze differenti e forme incredibili. Era in Paradiso o così a lui parve.

Scorse un masso lì vicino e si sedette, sempre pensando a lei, che aveva quei capelli corti e rossi e che erano i più belli che mai avesse visto.

Forse adopera qualche antico unguento, pensò il ragazzo, ma scacciò subito quell’idea malsana dalla sua mente, perché K. non poteva certo corrompersi i capelli con strani unguenti, che avrebbero sicuramente scalfito la sua bellezza, che era unica, come unici erano quegli occhi verdi che parevano della stessa sostanza dell’acqua di un mare tropicale.

Il ragazzo, rapito da questi lusinghieri pensieri, avvertì uno scombussolio dietro di sé e lo stupore fu tanto perché non si ricordava di un ruscello che scorreva placido come i lenti passi di un vecchio. Unì le mani a formare una conca e bevve di quell’acqua, che era piuttosto fresca e salutare. Per un attimo, ma solo per un attimo, gli sembrò di vedere l’incantevole volto di K., incorniciato da quei corti capelli rossi e poi c’erano quegli incredibili occhi verdi, che ti imbarazzavano se rimanevi troppo a guardarli.

Strizzò gli occhi varie volte e quel bel volto si dissolse come fanno certi sogni nel bel mezzo della notte. All’ennesimo sorso di quell’acqua si sentì soffiare sul collo. Si girò di scatto, e quasi ebbe paura, e vide un usignolo (era il medesimo che si era nascosto tra le coccole del cipresso quel giorno al cimitero) che stava a guardarlo senza aver paura.

Lui chiuse gli occhi e gli parve di trovarsi di fronte K. Si sentì ancora soffiare tra i capelli, ma non vide anima viva se non quell’usignolo che continuava a fissarlo.

Lui, un pochino impaurito, si alzò con gli occhi gonfi di lacrime che stavano lì lì per precipitare lungo le sue guance e fu proprio in quel preciso momento che vide K. davanti a sé.

Era ancora la più bella ragazza che lui avesse mai visto. Aveva un abito rosso tramonto che copriva quel suo corpo che solo negli interminabili silenzi durante i suoi sogni lui credeva di aver sfiorato con le sue dita. Quell’abito modellava sulla sua figura più curve del sentiero che saliva lassù dove lui da ragazzino andava a cogliere le mele selvatiche.

Si accorse con sgomento ed una punta di dolore che K. non era lì con lui.

Si portò al naso le dita. Profumavano. Mise la mano destra aperta sul cuore e sentì forte il battito. Strinse forte i pugni come faceva sempre quando pensava e lasciò quel sentiero, sicuro che avrebbe visto di nuovo K.

Camminò in silenzio, mentre il sole stava lentamente cedendo il passo alla luna.

Gli passò accanto un usignolo che quasi gli sfiorò i capelli.

Lui aveva di nuovo gli occhi colmi di lacrime, ma riuscì a fermarle appena in tempo, quando vide che l’usignolo era volato via da lui fino a diventare un puntino nero laggiù in fondo dove il sole stava ormai sparendo dietro le colline.