A volte, nei frequenti momenti di recupero di un brano del mio passato, piccolo o poco più, cerco di riviverlo senza forzare la memoria, facendomi accompagnare dalle foto appese alla parete, e da quelle appese dentro di me, dolcemente. Certo, frugare, rimuginare, arzigogolare su ciò che è stato ha bisogno di tempi, e luoghi  particolari; e, soprattutto, di un clima, che assecondi la mia nostalgia. 

Diceva, il poeta francese Charles Boudelaire, che “… chi ama il mare, ama la libertà…”. Ecco, io mi ritrovo in questo pensiero, anche se devo precisare i limiti che incontro in questa affermazione perché il mare l’ho solcato solo con i traghetti, e quindi parlo della pace che mi dà ma dalla riva.

La mia “storia” con lui parte dagli anni ’50 del secolo scorso (il tempo passa e non si ferma, mai!) quando le vacanze estive dei ragazzi italiani avevano due sbocchi: o la colonia, di solito gestita dalle suore; o l’affitto di qualche locale di una casa. Io ho fatto parte del secondo gruppo, e Viareggio era la mèta di coloro che potevano spendere un po’ di più e si adattavano ai disagi previsti compresa la lontananza dall’arenile. Rammento con un po’ di difficoltà, dove i miei trovarono un alloggio per i nonni materni e una zia tanto da comporre un bel gruppetto che si compattava durante i pranzi e le cene, e per dormire. Era, quella, come già detto, una moda dell’epoca, e mi sembra di ricordare che molte fossero le case così occupate, come le pensioncine per chi aveva due lire in più.

Ho ancora una piccola memoria antica, ma ben radicata dentro, della casa del “Mentaio”, così chiamato perché il proprietario e la sua famiglia esercitavano quel mestiere, e che profumo fragrante alla sveglia la mattina! Chi ha qualche anno come me si ricorderà senz’altro di quei giovani che, con larghi e semipiatti canestri, passavano la mattina sul tardi, dopo il bagno, invitando i turisti a mangiare le mente, i bomboloni, le noci di cocco a fette (“Cocco, cocco, cocco di mamma!”). Quando si poteva, se ne approfittava, e questa è una delle rimembranze che ancora mi porto dentro con tantissimo affetto. 

Già di mattina presto, nonna Marietta, che in realtà si chiamava Clementina, un nome dolcissimo, mi portava con sé al mercato per fare la spesa; il mercato quello grande, non molto distante da dove soggiornavamo. Era un mercato enorme, tanto che mi sembrava non finisse mai, e mi faceva anche un po’ paura per la folla che lo frequentava. Questo significava che le case in affitto erano numerose, e che l’aria di mare stuzzicava assai l’appetito: si mangiava tutto e di tutto, altrochè.

E’ proprio da lì che ho cominciato ad amare le patatine fritte a velo, le attuali chips, quello dello zì Pietro: nonno Anchise me ne comprava un sacchettino bianco per 100 lire. Poi si partiva per il mare, finalmente! Al mare! Carichi di asciugamani, ciambella, retino da farfalle, le palline di plastica con dentro il volto dei ciclisti allora più famosi, traversavamo un paio di strade, l’Aurelia, che già era abbastanza trafficata. Sembrava, quello un breve trasloco; quasi tutte le famiglie vacanziere, con i ragazzi, si “trasferivanoallo stesso orario, circa la prima metà della mattina, e in noi cresceva l’ansia di arrivare, di rivedere gli amici, di giocare, e di fare il bagno. Fare il bagno nel mare: sguazzare, andare sotto, urlare, e bere – anche – con l’acqua che mi sembrava più chiara e fresca e azzurra di oggi. 

Si toccava il cielo con un dito, abituati, la maggior parte di noi, a bagnarsi in qualche bozzo d’acqua, che a Collodi chiamavano “La Serena” e a Pescia “La Marcona”. Un tripudio di gioia che valeva quanto la vacanza. I nonni, da riva, rimboccando i pantaloni fino al polpaccio, ci controllavano affinchè non ci allontanassimo pericolosamente al largo. Per minuti e minuti lasciavamo libero sfogo alla nostra voglia di divertirci, così spontanea e profonda che io me la sento ancora dentro. In quell’infantile trambusto, il sapore di sale si confondeva con l’odore del salmastro, mentre le labbra e le unghie si dipingevano di blu: era l’inizio della fine della balneazione. 

Quasi tutti insieme, svogliatamente, dovevamo obbedire, ai richiami che ci venivano fatti perché eravamo rimasti in acqua troppo a lungo. Si usciva, e già trovavamo un asciugamo che ci riscaldava perché qualche piccolo brivido di freddo correva sulla schiena. Ahhh, la sabbia calda – anche troppo! – , il sole vicino allo zenit, l’odore della merenda (l’appetito era stato stimolato) che, se non portata da casa, veniva soddisfatto da quei venditori che ho citato prima, e così divenni ghiotto delle noci di cocco: “Cocco, cocco, cocco di mamma!”. Ancora oggi ne conservo una bella memoria perché mi riporta, con una sottile nostalgia, a quei lontani – troppo – anni dell’infanzia. 

Prima di ritornare a casa, con sul capo un cappellino di quelli che, quando il Giro, o altra corsa importante passava da Ponte all’Abate, le macchine che facevano la pubblicità, grazie ai loro passeggeri, lanciavano quegli oggettini, che erano – da subito – contesi un po’ da tutti; e se babbo riusciva a prenderne uno, lo mettevo subito, orgogliosamente in testa. Ecco, con quel cappellino, un po’ stanchi, ci sistemavamo sulla battigia e ci dedicavamo alla “costruzione” di un castello. Era un “lavoro” che non finiva mai. Le onde erano leggere, lievi ma continue; la sabbia si solidi cava per pochi secondi. Poi, un respiro marino più forte e l’acqua si riappropriava del nostro fragilissimo edificio. Era, quindi, una lotta continua, ma lui vinceva sempre, tanto che ci prendeva la noia e lo lasciavamo tutto incompiuto. Nel ritornare all’ombrellone si lanciava uno sguardo alle “rovine”: ancora pochi secondi, e le nostre fragilissime opere scomparivano. 

Era piena estate, e ricordo che “quello” si arrabbiava raramente. Il mare mosso sciupava tutta la giornata; ti toglieva il divertimento di poter entrare nell’acqua, di comportarci come girini felici, di sentire il calore che ci avvolgeva. Sensazioni mai più provate perché la fanciullezza è come l’occaso, il tramonto. Il sole se ne va lontano, all’orizzonte, a volte fiammeggiando, mentre le ultime barchette ritornano in porto: ritardatari, dopo una lunga giornata ritmata dalle onde. Sembrava tutto facile perché tutto scorreva lietamente, con dentro una contentezza che, seppur ripetitiva, ci regalava un sonno profondo, e sogni che non rifaremo mai più. 

Poi, arrivava “quella” data: si ritornava a casa. C’era uno strano rammarico nell’abbandonare la casa del “Mentaio”; gli amici con i quali avevo giocato per giorni e giorni; l’addio al mare, che allora non sarà profondo e commovente come oggi, ma solo un arrivederci, un ciao con la manina e l’ingenua certezza di ritrovarci l’anno prossimo. … Sono passati gli anni. Ho conosciuto altri mari, altre città, altre persone, ma niente è stato come. Si dice che la prima volta, di tutto ciò che ci accade,  sia indimenticabile. Non so gli altri: per me, è così, e questo non fa un gran bene allo spirito perché ti pare che, ritornando in certe località, o rivedendo volti che hanno condiviso le tue esperienze, quelli sembrano cambiati, sì, ma in peggio. Certo, l’infanzia e la fanciullezza ci regalano a piene mani la gioia di vivere: scherzare, giocare, starnare un graspo di uva matura, sgranocchiare con una punta d’ingordigia patatine al velo. Che emozioni, che tenerezze, che turbamenti creavano certi sguardi di una ragazzina!

Sono ritornato, quando ho potuto, proprio in quei luoghi che ho frequentato, e l’impressione che ne ho ricevuto, passato il primo favorevole impatto, è stata di nostalgia, poi di malinconia e, infine, di tristezza: l’incantesimo era scomparso. Quel mare, che ho amato tantissimo, non è più lo stesso, ormai. E’ certo che anch’io sono cambiato, e forse questa mia ricerca nasce orfana di quel sole, di quella sabbia, di quelle onde, di quella innocenza. Tutto è diverso, lontano da ciò che ricordavo, dai punti salienti scolpiti nella mia memoria. Sì, il Molo è sempre lo stesso, ma nessun ragazzo viareggino si butta giù per recuperare le monete che certi turisti lanciavano in acqua perché fossero recuperate. E gli yachts sembrano più grandi e costosi di quelli d’allora. C’era, vicino alla Madonnina, un vascello trasformato in ristorante: è andato bruciato, addirittura!

Poi, il viale Margherita, con l’omonimo caffè, allora frequentatissimo soprattutto dalla bella gente. Rimanevo a bocca aperto quando, dopo cena (molo raramente), venivo lì accompagnato da nonna e zia. “Mi raccomando, Franco, solo un gelatino piccolo …”; ed io “ordinavo” una coppa di panna montata. Eccezionale, e mai più gustata una uguale, mentre loro mi guardavano un po’ di traverso. Il tracollo della bellissima pineta. Era la mèta di diversi pomeriggi; una biciclettina da corsa, per un’ora, al prezzo di poche centinaia di lire; e il teatrino dei burattini, dove tutti noi bambinelli ridevano col cuore e facevamo il “tifo” per le bastonate che il “buono” tirava al “cattivo”. Più avanti, per rivedere almeno il “Pino sul tetto” e la pista di pattinaggio su rotelle. Un pianto, uno sfacelo e niente più. Ma l’impatto maggiore è stato quello del suo mare. Cercando di rifare lo stesso percorso come usavo nei tempi passati, e sfiorando il grande mercato, oggi vuoto, abbandonato, mi sono recato allo stabilimento, che ricordavo ancora bene, con gli ombrelloni bianchi e arancioni che si scorgevano già dalla passeggiata. Da lontano, tutto sembrava uguale ma, più mi avvicinavo, e più sentivo che sarebbe stato meglio fossi tornato indietro. 

Va bene era un’anonima giornata invernale, grigia e senza spinta, ma in realtà, cosa cercavo? Volevo riprendere ciò che avevo lasciato decenni fa? Un’operazione infantile: la retromarcia, ancora, i fenomeni del Duemila ancora l’hanno inventata. Cosa mi rimaneva? Una bella, lunga passeggiata mentre il chiarore del sole “affondava” all’orizzonte; e poca gente, anziana come me, se ne andava camminando: il loro viso non rimandava felicità. Chissà cosa pensavano, chissà cosa ricordavano. Lo sguardo serio, a volte in basso, mentre il mare continuava, ad essere il solito, come sempre. Lo sciabordìo delle onde; qualche radice arenata, e, soprattutto, le conchiglie, vuote, in cui gusci ho sempre apprezzato e ancora ne conservo alcuni. Passeggiare, e cercare di rivivere tempi lontani; fermarsi e ripensare ad un vecchio episodio che è soltanto un lampo e niente più. E’ il tempo delle “borse” sotto gli occhi; simpatiche, le prime. Poi, dopo poco, diventeranno valigie. E che dire della cintola, che si deve allentare di un buco, per finire con i jeans, che si portavano attillati. Si portavano ….

Il mare era la gioia infantile; gli sguardi, con la coda dell’occhio, alle belle ragazzine, mentre qualcuno di noi tirava un lungo sospiro per allargare il petto. Giornate che terminavano alla balera, ma mai troppo tardi. Ricordo quella al bagno Nettuno, vicinissimo al Molo, dove la musica era dolce, romantica, trascinante, lenta e permetteva approcci sentimentali ai più fortunati e bravi a ballare, con l’ostacolo del gomito alzato di lei per evitare … e per difendersi. E non si disturbava il sonno del mare. Era l’estate, quella che ancora mi porto dentro, con l’ultimo appuntamento che serviva, ieri, per accompagnare i figli, cercando di continuare i nostri bei tempi memorabili. Erano gli ultimi bagliori come mi appare chiaro ora, guardandomi intorno. Viareggio aveva perduto la sua classe, come Montecatini e Firenze. Non so se affittano ancora le case; so quello che ho rivisto, che ho cercato di rivedere, ma sono rimasto disilluso. 

Il mio sguardo si dirigeva su di lui, e un briciolo di speranza mi tornava dentro. Chi era sempre lì, e lo guardava con tanto affetto, anche con i suoi cavalloni, che incutevano timore. Lui era ancora vivo, forte e calmo, affascinante subito sin dal primo giorno; e tenace, sempre buono con chi lo ha amato perché non ha mai tradito. A proposito: dimenticavo il nome dello stabilimento che ha messo in moto queste mie memorie, Bagno Paradiso. Chissà quale messaggio vorrà mandare.

Franco Corsetti