Dal 27 al 30 ottobre 1922 l’Italia assisteva alla Marcia su Roma indetta dal partito nazionale fascista.
A cento anni dall’evento, preludio alla dittatura, abbiamo ritenuto opportuno parlarne con il prof. on. Carlo Galli, filosofo politico, accreditato giornalista de La Repubblica e autore di numerosi saggi e note pubblicazioni. 

D. Quale furono le premesse politico-sociali che determinarono la Marcia su Roma?
R. «La marcia su Roma è il culmine di un biennio di violenze fasciste che a sua volta seguiva un biennio di violenze socialiste. Lo Stato liberale italiano, che si era democratizzato contro voglia, nel senso che aveva dovuto aprirsi alle masse quasi solo per mandarle a fare la guerra, aveva al proprio interno aree minoritarie di industrializzazione, nelle quali c’era un proletariato organizzato dai socialisti; insomma era uno Stato liberale che aveva davanti a sé parecchie sfide democratiche e non le sapeva risolvere. A peggiorare le cose c’era il fatto che il sistema elettorale era passato dal maggioritario al proporzionale: e le elezioni politiche del 1919 avevano sancito che le forze borghesi non erano più in grado di esercitare la consueta egemonia. Il liberalismo, che non era nemmeno organizzato come partito, con le elezioni del 1919 si era visto sfidare da una forza socialista e una forza cattolica, entrate in Parlamento. La forza cattolica nasceva dalla caduta del non expedit pontificio, e la forza socialista era importante ma era molto divisa al suo interno fra massimalisti e riformisti. Questo faceva si che i partiti non riuscissero a produrre una maggioranza stabile in Parlamento. La maggioranza si sarebbe ottenuta se il blocco liberale si fosse alleato con i socialisti. Ma questo non è avvenuto. La gran parte dei socialisti rifiutavano questa alleanza con un partito borghese. Perciò abbiamo una grande difficoltà politica a livello istituzionale: non si riusciva a metter insieme un governo che non fosse fragile e precario. Abbiamo inoltre, al di là delle questioni istituzionali, una difficoltà strategica-sociale: la grande guerra ha trasformato radicalmente la società italiana e l’ha mobilitata. La mobilitazione delle masse è difficilmente contenibile dentro le istituzioni e le mentalità del mondo borghese. Ricordiamoci che l’uomo più importante messo in campo dai ceti tradizionali era Giovanni Giolitti. Un uomo che aveva sostanzialmente ben meritato dal paese prima della Prima Guerra mondiale ma dopo la guerra era chiaramente un uomo vecchio».

D. Quale fu il blocco politico sociale che consentì l’accesso al potere del fascismo?
R. «Difficoltà di carattere parlamentare istituzionale, difficoltà sociali legate al fatto che la società italiana è diventata una società di massa e difficoltà, diciamo, di ordine pubblico ma su una scala che oggi non riusciremmo a capire. In Italia c’era di fatto una guerra civile latente nella quale, nei primi due anni 1919/20 ebbero la prevalenza i socialisti; nella seconda parte della quale, 1921/22, ebbero la prevalenza i fascisti. Succedeva che i socialisti escano dalla Prima Guerra Mondiale criticando la guerra e coloro che l’avevano fatta, sia i soldati sia gli ufficiali. I socialisti credevano che, sull’onda della rivoluzione bolscevica del 1917, fosse venuto il momento anche in Italia di “fare come in Russia”, cioè di prendere il potere con la violenza. Anche se a livello amministrativo locale, soprattutto nel nord, i socialisti governavano una grande quantità di comuni, nel 1919/20, a livello nazionale i socialisti facevano una politica di forte contrapposizione allo Stato e alla borghesia, con scioperi e violenze di piazza. Il Partito Socialista era diviso al proprio interno da varie anime. Però, almeno due delle tre anime che stavano nel partito avevano come linea di “fare come in Russia”. Allora il mondo borghese e tutti i poteri del paese, economici, amministrativi, politici e in parte anche la Chiesa, si spaventano molto (ricordiamoci che in quegli anni l’Europa era percorsa da rivoluzioni, generate dal grande evento bolscevico) e pensano di adoperare Mussolini come arma per difendersi dai socialisti e dai comunisti».

D. Quale fu la reazione del Partito Socialista Italiano in quel frangente?
R. «Bisogna sottolineare il fatto che Mussolini era stato un socialista, e conosceva bene i socialisti e li disprezzava profondamente. Mentre da parte dei socialisti, la questione Mussolini e la questione fascismo non era particolarmente sottolineata. Se analizziamo i resoconti del congresso di Livorno, dal quale, esce, nel 1921, il Partito Comunista d’Italia, vediamo che si parla di tutto meno che del fascismo. Il fascismo non era ancora visto come il vero problema. Venivano visti i fascisti come malfattori prezzolati che costituivano una manifestazione esteriore del vero problema, che era lo Stato borghese. Mussolini mostra un andamento politico alternante, perché da una parte odia i socialisti ma dall’altra, a un certo punto, cerca con essi di fare il patto di pacificazione ma viene smentito dai capi locali del fascismo (i ras) che erano più estremisti di lui. Di fatto Mussolini diventa lo strumento dei poteri forti del nostro Paese, in chiave di contro-rivoluzione. Il re Vittorio Emanuele III si convince che politici tradizionali liberali e i politici nuovi, i socialisti e i cattolici di don Luigi Sturzo, sono degli incapaci e non riescono a formare governi forti e stabili, e allora acconsente a dare a Mussolini l’incarico di formare un governo. Dopo la marcia su Roma (che non fu una presa violenta del potere, sarebbero bastatati un paio di battaglioni di carabinieri per fare ritornare a casa quelle persone, ma la debolezza dello Stato italiano sarebbe rimasta la medesima) il re e tutti i poteri italiani pensarono che la cosa migliore fosse mandare al Governo Mussolini per indebolirlo istituzionalizzandolo, e al tempo stesso per tenerlo sotto controllo. Il primo Governo Mussolini fu un governo di coalizione in cui c’erano dentro anche i cattolici e i liberali. L’idea era quella di adoperare Mussolini per frenare i socialisti, per riportare ordine nel Paese».

D. La marcia su Roma fu un evento di rottura della tribolata democrazia liberale del tempo. Come si può leggere alla luce degli eventi successivi?
R. «Fu l’elemento di rottura perchè fu la goccia che fece traboccare il vaso della incapacità del ceto politico tradizionale. Di per sé, ripeto, non è stata una presa di potere e non ha avuto niente da che vedere con la rivoluzione bolscevica (che peraltro al suo inizio fu molto poco violenta, nei primi giorni di novembre del 1917). Ma il fatto è che fu una goccia che fece traboccare il vaso e fece capire al re, persona chiave, che bisognava prendere atto del fatto che i nemici di Mussolini non riuscivano a combinare niente, che lo Stato era a pezzi, e che, quindi, bisognava utilizzare Mussolini. Il fascismo in seguito insegnò agli italiani a vedere nella Marcia su Roma l’inizio di una rivoluzione. Per far nascere il fascismo, nel senso di dittatura, si dovette aspettare due anni (1923/24) e sperimentare la crisi e l’incapacità dei partiti antifascisti e l’uccisione di Giacomo Matteotti; solo nel gennaio del 1925 nacque la dittatura vera e propria.
La Marcia su Roma è l’ultimo atto di una crisi che durava da quattro anni: la democrazia liberale in Italia era fragile: erano pochissimi coloro che possedevano una cultura liberal democratica, non certo i poteri forti del Paese e non certo le masse. Lo Stato liberale ottocentesco, che si era formato nel 1861, in quel momento per mantenersi in vita si è suicidato».

D. L’arrivo al governo di una coalizione di destra-centro, che significato assume oggi, a distanza di un secolo, di quell’episodio? E quanto consente di alimentare una preoccupazione?
R. «Le cose oggi sono molte diverse. L’alleanza di destra-centro va al governo al termine di elezioni regolarissime, e questa è già una grande differenza: non c’è stata alcuna Marcia su Roma. L’elemento di analogia è il fatto che, come allora il fascismo era la manifestazione della crisi dello Stato, così oggi il fatto che la maggioranza dei cittadini voti forze di destra è la manifestazione della crisi, più che dello Stato, del paradigma socio-economico dentro il quale ci troviamo, che non è più in grado di offrire risposte ai cittadini, che insomma produce problemi e non soluzioni. In Italia ci sono una dozzina di milioni di persone che si astengono, un’altra dozzina di milioni di persone che sono alla ricerca di forze politiche che diano voce a paure e alla mancanza di fiducia nel futuro, nel presente e anche nelle istituzioni democratiche. Tutto ciò nasce dalle prestazioni cattive della nostra economia, della nostra società e del nostro modello di sviluppo. Questi dodici milioni di persone che continuano a votare per protestare in ogni elezione cambiano obiettivo. Hanno votato prima per il M5S, poi per la Lega e adesso per la Destra. In realtà, oggi, non è che in Italia ci sono dodici milioni di fascisti. In Italia ci sono dodici milioni di persone che hanno votato un partito post fascista per dimostrare e protestare. Queste persone che hanno votato la Destra saranno governate da una politica che non si staccherà dalle politiche poste in essere precedentemente dai partiti e dalle forze politiche mainstream. Non cambierà niente. Quello che cambierà sarà un po’ la retorica politica, ma non cambierà nulla della “struttura”. Tutti coloro che hanno votato la Meloni credendo che lì ci sarebbe stato un cambiamento a favore dei ceti più deboli si troveranno davanti un Governo che farà più o meno come i governi precedenti. Questo è il vero problema».