Secondo un recente rapporto Istat riferito all’anno 2021 sono circa otto milioni e mezzo i bambini e i ragazzi iscritti a un qualunque percorso scolastico; di questi, poco più del 10% sono stranieri. Quando si arriva alla scelta della scuola superiore, il 43% degli studenti di sesso maschile e il 22% di sesso femminile si iscrivono a istituti tecnici; una piccola minoranza nei licei e circa un quarto del totale in scuole di tipo professionale, dove se si va a ben vedere la percentuale di studenti stranieri arriva a eguagliare o superare, perfino, quella degli studenti di nazionalità italiana.
Le ragioni sono molteplici, e sono riconducibili solo in parte a difficoltà di natura linguistica. L’accesso all’informazione, che oggi risiede quasi sempre su canali digitali (siti internet), rende talvolta complicata la scelta della scuola; la volontà di arrivare velocemente a un titolo che consenta di avere in mano un mestiere, e talvolta una scarsa conoscenza del sistema scolastico italiano possono indurre le famiglie che magari sono in Italia da pochi anni a scegliere percorsi di tipo professionale per i loro figli. È un trend noto da tempo, eppure si è fatto ben poco, a livello istituzionale, per invertirlo o mutarne almeno in parte il corso.
Quello che non si è capito è che sarebbe una soluzione per la fuga all’estero dei laureati italiani, che si formano qui e poi, attirati dagli stipendi più alti, dalle migliori possibilità di impiego e certamente anche da precariati più brevi, se ne vanno. Ampliare il bacino della formazione universitaria anche a studenti che non sono nati qui ma hanno scelto questo paese per viverci mi appare una delle poche strade percorribili per ovviare alla perdita di mestieri altamente qualificati.
Con tutto il dovuto rispetto per gli istituti professionali che – lo so bene perché ci ho lavorato diversi anni – fanno un lavoro enorme ed encomiabile, dunque sarebbe ora che l’istruzione tecnica e liceale si aprisse maggiormente all’ingresso di studenti non italiani, motivati a continuare poi gli studi all’Università.
Un esempio? C’è penuria di personale ospedaliero: mancano medici del pronto soccorso o di base, chirurghi, anestesisti, infermieri, e con il prossimo turn over la situazione peggiorerà ulteriormente: si stima che entro il 2027 andranno in pensione quasi quattromila medici, una vera e propria emorragia per la quale i sindacati di categoria hanno già lanciato un grido di allarme. In qualche modo bisognerà porvi rimedio: e bisognerà tornare a investire sulla scuola e invogliare gli studenti, italiani e non, alla scelta di determinate professioni. Un percorso tutt’altro che facile, perché coinvolge tanti attori diversi, e richiede ingenti risorse. Il PNRR ha stanziato quasi 5 miliardi per la digitalizzazione della scuola, e per l’ammodernamento degli ambienti di apprendimento.
L’ ottica è quella, cito dal sito del Ministero dell’Istruzione, di “creare laboratori per le professioni digitali del futuro negli istituti scolastici del secondo ciclo” e “spazi di apprendimento flessibili e tecnologici per favorire la collaborazione e l’inclusione”. Un’ ottima cosa, la trasformazione di ambienti e arredi che talvolta risalgono agli Anni ‘70 e hanno certamente bisogno di una rinfrescata o addirittura di una totale ristrutturazione. Ma non bisogna dimenticare le risorse umane, in questo caso gli studenti che poi la scuola la frequenteranno. Corsi di apprendimento linguistico per non italofoni, rinforzo delle competenze di base per tutti (perché poi si sente dire che i ragazzi non sanno più scrivere o hanno difficoltà oggettive nella matematica di tutti i giorni), risorse da destinare all’orientamento per le famiglie, classi meno numerose per poter seguire meglio ciascun ragazzo: sono previste questo tipo di iniziative? Me lo auguro.
Perché sono convinta di una cosa, da sempre: investire nell’istruzione ha un costo immediato e dà risultati non immediatamente visibili, che richiedono anni per emergere, ma è l’unica strada per lo sviluppo di un paese.
Non vorrei che la regressione verso cui invece si è avviato il nostro, ormai da tempo, fosse irreversibile e inesorabile.
Stefania Berti