Home STEFANIA BERTI Trent’anni di Tangentopoli: una storia triste dell’Italia | Stefania Berti

Trent’anni di Tangentopoli: una storia triste dell’Italia | Stefania Berti

C’è una casa di cura, a Milano, aperta nel 1766: si chiama Pio Albergo Trivulzio, e nel 1992 il presidente era l’ingegner Mario Chiesa, membro di una certa importanza del Partito Socialista Italiano. Il 17 febbraio di trent’anni fa Mario Chiesa fu arrestato mentre riscuoteva una tangente da un piccolo imprenditore che voleva aggiudicarsi un appalto per le pulizie del Trivulzio.

Fu scoperchiato il vaso di Pandora: nonostante il diniego di pochi – Bettino Craxi definì Chiesa un “mariuolo”, tentando di far passare l’idea del caso singolo e isolato – numerosi imprenditori nei mesi successivi iniziarono a rilasciare dichiarazioni spontanee nel tentativo di accreditarsi come concussi, cioè vittime di estorsioni da parte di politici e autorità, e nella speranza di alleggerire con le confessioni condanne e coscienze.

Ebbe inizio così la stagione di Mani Pulite, che portò all’arresto di esponenti di spicco dei partiti tradizionali come la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista, che di fatto si sciolsero, e alla nascita di nuove forze politiche come la Lega Nord e Forza Italia: la Prima Repubblica cadeva e sorgeva la Seconda, che due anni dopo, alle elezioni del ‘94, consacrava il partito di Silvio Berlusconi insieme al Polo delle Libertà, coalizione di centrodestra, come vincitore con più del 49% delle preferenze, in un’Italia amareggiata e pronta a credere alla favola della discesa in campo di un imprenditore prestato per amor di patria alla politica.

Il procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli creò un pool di magistrati per gestire la mole di lavoro che cresceva di giorno in giorno; il gruppo comprendeva Antonio Di Pietro (che ne divenne il simbolo, forse per l’eloquio popolare che sfoggiava in aula e lo faceva sentire vicino alla gente), Piercamillo Davigo, Gherardo D’Ambrosio, Francesco Greco: nomi che dicono poco ai ragazzi di oggi, ma che per molti di noi che c’eravamo rappresentavano vere e proprie celebrità. Lo testimonia, anche se quasi nessuno lo dice più, un dato significativo: il boom delle vendite dei quotidiani nazionali per la gioia degli edicolanti, dovuto alla fame di notizie della gente comune, che seguiva, con un interesse che oggi non c’è più, le vicende della politica e della cronaca giudiziaria.

Mani Pulite era nota sui giornali anche come Tangentopoli, perché mise in luce un sistema diffuso di malaffare consistente nello scambio di favori tra politici di quasi tutto l’arco parlamentare, MSI, Rifondazione Comunista e Democrazia proletaria esclusi, e imprenditori. I primi ricevevano denaro in nero che finiva nelle tasche dei singoli e qualche volta nelle imbottiture dei divani e dei materassi, come nel caso di Duilio Poggiolini (soprannominato il re Mida della Sanità: in casa gli trovarono persino lingotti d’oro); altre volte servivano a finanziare le attività dei partiti, che potevano ottenere finanziamenti pubblici, ma a patto di scriverlo nei bilanci.

Preferivano quindi farsi dare il denaro sotto banco, per non far emergere i favori resi sotto forma di concessione di appalti o leggi su misura. Gli imprenditori, a forza di mazzette, entravano così nel giro che contava; per rientrare delle spese facevano lievitare i costi delle opere che realizzavano, e quando tali opere erano pubbliche il danno finiva per ricadere sugli ignari cittadini. Ignari? Forse mica tanto. Beppe Grillo nell’86 lo disse durante una puntata di Fantastico 7 che i socialisti rubavano, e per questo fu bandito dalla Rai.

Oggi assisto con qualcosa che somiglia alla disperazione a una sorta di revisionismo storico che talvolta colpisce gli stessi cronisti che trent’anni fa erano in prima linea nel raccontare i fatti. Leggo che Mani Pulite è stato il palcoscenico di magistrati primedonne, che non è servito a nulla perché la corruzione è sistemica, che ha portato al suicidio di tante persone (cinque, per la precisione: ogni tanto nei racconti annebbiati di qualcuno la cifra sale a quaranta, ma è una cifra falsa), che non è stata altro una foga manettara abbattutasi inspiegabilmente su un intero paese.

Sono sciocchezze, dalla prima all’ultima. Quei magistrati subivano la pressione della stampa come la subivano politici e imprenditori sotto inchiesta; e il circo mediatico non è certo servito a far decollare negli anni successivi le loro carriere, anzi. La corruzione è rimasta, certo; ha assunto altre forme, percorso altre vie. C’è perfino chi ha tentato di legittimare quella precedente a Tangentopoli dicendo che almeno prima del ’92 si rubava per il partito e non per sé stessi: ma lo dice solo chi ha scarsa memoria, o è in malafede.

Eppure, per alcuni anni dopo quell’ondata di scandali il costo delle opere pubbliche, come rivelò un rapporto dell’associazione Transparency International, quasi si dimezzò, segno evidente che gli imprenditori non lo gonfiavano più per rientrare dalle mazzette, perché non c’erano più mazzette da cui rientrare. E c’è chi scredita perfino il sentimento di tante persone perbene che allora si indignavano e protestavano, chiamandolo giustizialismo: ma era semplicemente voglia di una giustizia a lungo negata, il tentativo di liberarsi per sempre di una classe politica che aveva disonorato le istituzioni che rappresentava.

Mani Pulite è stata per noi diciottenni di allora quel che il Sessantotto è stato per i nostri genitori: un’improvvisa ventata di libertà gridata, finita non quando ci siamo imborghesiti anche noi, ma quando in Parlamento hanno iniziato a emanare leggi che invece che inasprire le pene dei delinquenti ne depenalizzavano i reati o ne rendevano più difficile l’accertamento.
Ma questa è un’altra storia, con cui non abbiamo ancora fatto i conti del tutto.

Stefania Berti