Home STEFANIA BERTI Meglio il professore empatico che di “manica larga” | Stefania Berti

Meglio il professore empatico che di “manica larga” | Stefania Berti

Cosa si intende con il termine empatia? È una parola bellissima, che deriva dal greco empátheia e alludeva a quel rapporto esclusivo che si creava tra un autore e il suo pubblico, quando l’uno capiva le emozioni e i sentimenti dell’altro, e viceversa. Connessa com’è alla letteratura e al teatro, questa capacità non poteva restare estranea al mondo della scuola e al mestiere più bello del mondo, quello dell’insegnante. Un film del 1989, che ebbe un enorme successo al botteghino e viene spesso riproposto in tv, è L’attimo fuggente: chiunque insegni in una scuola ha desiderato almeno una volta nella vita di essere amato come il professor John Keating lo è dai suoi studenti, ma soprattutto di suscitare in loro lo stesso entusiasmo verso lo studio. Ma per farlo bisogna che i ragazzi percepiscano che il professore o il maestro amino il proprio lavoro, apprezzino la loro compagnia e, aggiungerei, si divertano come matti ogni volta che entrano in classe.

È noto ormai alla psicologia evolutiva che l’emozione gioca un ruolo cruciale nei processi di apprendimento: si impara di più da un maestro con cui ci si senta in sintonia che da uno percepito come estraneo, o distante, perché uno stato d’animo allegro, sereno, rilassato – quello che si crea in una classe quando il rapporto tra docente e alunni funziona – consente di archiviare le informazioni nella memoria in modo più efficace. A tutti noi insegnanti è successo di aver totalmente dimenticato contenuti subito dopo aver dato un esame all’Università e di ricordarne invece perfettamente altri, e spesso questo è legato al ricordo che abbiamo del docente che trattava quella particolare disciplina. Succede anche ai bambini o ai ragazzi, specie quando percepiscono che c’è qualcosa di sbagliato nel rapporto coi propri professori. Che magari nella vita volevano fare altro. O conoscono benissimo la materia che insegnano ma non trovano la chiave comunicativa giusta per trasmetterla. O hanno problemi personali a causa dei quali sono distratti, o assenti; capita, perché gli insegnanti non sono macchine, che si spengono al termine di ogni lezione e riprendono a funzionare il mattino dopo. Oppure, e purtroppo capita anche questo, detestano gli adolescenti che hanno davanti, e proprio non riescono a rapportarsi con loro in alcun modo.

È il caso più triste, perché non ha soluzione: nessuno ascolterà mai davvero, empaticamente, un professore con cui non riesce a instaurare alcun rapporto umano, anche se insegna la materia più bella del mondo. Forse un tempo poteva accadere, quando gli insegnanti suscitavano una soggezione legata al ruolo che ricoprivano nella società, ma oggi non è più così, e probabilmente è un bene. Sono cambiati i ragazzi, ma siamo cambiati anche noi, e in qualche modo la modalità di rapportarsi con le classi è diventata meno impacciata, più informale. Questo non significa assolutamente essere di manica larga quando si valutano i loro lavori, o la qualità del loro impegno; ci deve essere onestà, sia quando si danno valutazioni negative che quando si danno bei voti, e oggi è molto più facile rispetto al passato, perché la forbice delle valutazioni si è allargata dal 2 al 10, almeno nella scuola superiore. Significa, semplicemente, aver voglia di parlare con loro, di spiegar loro cosa hanno sbagliato in un compito e quali ne siano invece i punti di forza; significa mostrare loro i progressi che fanno e provare a motivarli se invece si perdono o restano indietro; significa mostrare attenzione a ognuno di loro anche quando ci fanno arrabbiare, o quando avremmo voglia di desistere dal compito che ci siamo dati, perché ci pare impossibile.

È difficile? Lo è. Dovrebbero provarci tutti, una volta nella vita, a fare questo mestiere. Si renderebbero conto che non è per tutti. E forse smetterebbero di giudicarci dal numero dei giorni di ferie che abbiamo o dalle ore che passiamo in classe ogni settimana.