Sono alla fine dei miei pellegrinaggi. Ho rivisitato alcuni dei più sentiti episodi della mia vita, di quelli che mi hanno lasciato quel leggero sapore dolce che rimane dopo un bel gelato, magari di panna montata. Si cammina tanto, in questo mondo, contando anche le macchine e tutta la loro parentela. Oggi, forse, si corre un po’ troppo e a volte ci dimentichiamo per dove e perché. Specialmente nelle città, si entra a far parte di una corrente umana che quasi ti trascina, e probabilmente è staccarsene per riprendere il nostro percorso.

 

E’ da tempo che mi trovo bene con il silenzio e con una solitudine paesana, quella di vecchia maniera; quella che cantava Leopardi nei suoi idilli, venati di un pessimismo cosmico che io non posso raggiungere. Ora, in me, solo modesti echi di rumori che si spengono col calar della notte. Sono più attento allo scorrere del tempo, che ha raggiunto una lentezza tale tanto da mettere in luce ciò che sono stato, il piccolo mondo che ho conosciuto lasciandomi tracce più o meno profonde per quanto è stato il loro epilogo.

 

Tanti episodi, tanti volti, tanti paesaggi; non tantissimi, come oggi ogni globetrotter che si rispetti riesce nel coprire tutta la terra. I miei, di una normalità con poche eccezioni, e per questo tanto più care. Perché puoi girare il mondo, ma di te cosa rimane? E tu, dopo una vacanza, cosa resta nella memoria? Qualche fotografia, ieri in bianco e nero, oggi coloratissime, ma sempre e soltanto un’immagine senza appendici profonde. Ormai, l’orientamento mondiale non prevede pause, ripensamenti, raccoglimenti; ieri, un po’ di tempo fa quando la spiritualità era ancora forte, non mancavano le processioni. A volte eccessive, incomprensibili, noi lontani da loro contenuto, troppo ripetitive. Era un mondo chiuso però con grande umanità e un pizzico di spettacolarità. Cioè, si partecipava, ma il messaggio passava con tanta difficoltà, legato ad un passato che verrà spezzato via in pochi anni. Che fine avrà fatto la mistica? La contemplazione del non materiale?

 

Arrendiamoci alla superficialità, non costa fatica ed è gratis; al consumismo, costa tanto ma ne siamo drogati; al concetto balzano di non dover soffrire né – tantomeno – morire; così come lo strambo colpo di spugna dei francesi di abolire i numeri romani perché molti visitatori dei musei non sanno leggerli; dunque “seguendo la ormai diffusa regola che non sono gli incolti a doversi aggiornare, ma i colti a dover rinunciare al loro sapere … avremo una civiltà più accessibile e democratica legata all’età delle pietra”. Così, ormai siamo abituati a scherzare non solo con i fanti ma anche con i Santi, salvo, magari, nel bisogno …

 

Non esprimo concetti profondi: non ne ho la capacità ne la volontà. Penso al mio passato, un passato qualunque, e faccio pie valutazioni, i miei giudizi, le mie “classifiche”. E’ certo che più gli anni passano e più si guarda indietro che non in avanti. Le forze non sono più quelle di prima, e tutto decade, con le sue fragilità e debolezze. Così, quasi spontaneamente, si ripete la solita, banale frase: “Eh, ai miei tempi …”, credendo, illudendoci, che allora tutto andasse meglio (c’era la gioventù, perbacco!), ma l’uomo e la donna vivono anche d’inganni dei sensi e della mente. Riallacciarsi alla vita d’ieri ti dà una spintina per sopravvivere oggi, che però non mi sembra tanto migliore.

 

Si deve ritornare (si dovrebbe) a quella figura umana come un pellegrino, come viandante. Decenni, secoli fa, il pellegrinaggio era visto, e vissuto, quasi come una necessità se non un obbligo, ma la ricompensa era enorme perché pacificava l’anima col Soprannaturale. Si faceva testamento, prima di partire, perché quei tempi erano turbolenti, difficili e pericolosi, e duravano mesi. La via che chiamiamo Francigena – meglio sarebbe Romea – è stata tra le prime ad inaugurare il pellegrinaggio religioso, se non vogliamo considerare le Crociate. I pellegrini partivano dall’Inghilterra per raggiungere Roma. I ricchi, forse, erano più attrezzati; la massa si affidava alle gambe ed agli alloggi di fortuna: un fienile, una grangia, un monastero. Si pellegrinava, come tutte le religioni usavano, e ancora fanno.

 

Già da qualche tempo, comunque, ai pellegrinaggi religiosi si sono uniti quelli laici: pittori, politici, sportivi e tutto il bagaglio contemporaneo, strabordante di personaggi per una sola stagione. Ma questo dimostra tra come e quanto sia sentito questo accostamento tra l’uomo e i suoi valori spirituali; tra il desiderio di comunicare un messaggio verso colui che ha segnato un episodio, un simbolo, un segno che ci hanno lasciato una piccola grande certezza in questo nostro percorso.

 

Credo che, personalmente, tutti noi siamo, inconsciamente o meno, dei pellegrini perché spesso ci siamo detti: “Come sarebbe bello, quanto ci terrei a ritornare, o scoprire, un luogo lontano, o anche vicinissimo, che ci riscalda il cuore. Oggi, ci sono mille possibilità (c’erano?) per soddisfare questo desiderio, che di solito è individuale perché è difficile costruire un programma che coinvolga diverse persone. O sono io che credo che per appagare una nostalgia, un rimpianto, un senso di mancanza, sia necessario il raccoglimento e la lontananza dall’attualità ed il suo incedere veloce e rumoroso.

 

D’altronde, le proprie esperienze personali sono difficilmente comprensibili da coloro che non le hanno vissute; così credo che l’isolamento per raggiungere certe vette sia necessario, indispensabile. Nel mio percorso scritto, in questi ultimi tempi, ho cercato di rivivere momenti della mia vita, vissuta come tanti, quei tanti che hanno avuto esperienze simili, forse, ma mai uguali perché le corde toccate in ognuna di esse, producono suoni ed armonie uniche. Ed è giusto così, e per questo si può fare un viaggio insieme, ma le sensazioni saranno sempre personali, anche se l’obiettivo è lo stesso.

 

Pellegrini, dicevo, da subito. Quando ce ne rendiamo conto, abbiamo fatto già un lungo percorso, per chi ancora calpesta col poco vigore rimasto questo pianeta, che si scopre sempre più fragile e debole. Ecco, a questo punto, vista l’impossibilità di correre come facevamo prima, rimane questa voglia di non dimenticare chi siamo stati, dove siamo andati, cosa abbiamo fatto. C’era un piano. C’era un programma? Un progetto? O tutto è stato frutto del caso, dell’occasione o di un disegno inconcepibile?

 

Tanti interrogativi, e solo un pellegrinaggio che ci riporti indietro nel tempo può dare una piccola, grande risposta. Cercare di riprovare quello che sei stato, e le naturali conseguenze, ci permette di rivivere un pezzettino del nostro piccolo, e ormai vecchio, mondo di ieri l’altro, ricordando sempre che è la felicità che si può contagiare, mentre il dolore è solamente proprio e struggente.

 

C’è un altro fattore che può rendere più sereno il viandante: evitare i luoghi affollati perché questo viaggio dovrebbe allenare per il futuro. Un qualsiasi luogo che merita di mettersi in cammino, dovrebbe tener conto, secondo me, di questo messaggio. Se siamo alla ricerca dell’infinito, o del nostro passato, è necessario il silenzio, la concentrazione, un piccolissimo gruppo di viandanti, fortemente animati nel tentativo di raggiungere una mèta che non è solo materiale, ma che coinvolge tutto il tuo essere. Non importano le comodità, il buon mangiare, il bel panorama: sono ingredienti non graditi perché allora si va cercando un piacere concreto, necessario – magari – per una soddisfazione di mera esistenza.

 

Quando si comincia il viaggio, molto prima si programmano mète che ci considerano necessario; bisogni che si prova a soddisfare, con un paio di scarponcelli e un abbigliamento adeguato, povero, ridotto all’essenziale: uno zainetto. E’ quasi, direi, un cercare rifugio dal presente, che impone tutto e subito, qui e ora, sempre più in fretta. Fermarsi e riflettere è lo stile antico della pensosità perché essere all’antica appartiene al divenire: basta aspettare che i giovani invecchino, e in quel momento capiranno.

 

Allora, questo presente sta nel camminare, nel riflettere, nel ricordare perché tutti, nel nostro passato, abbiamo piccole grandi gioie che allargano il cuore. E’ anche questa la grossa differenza da oggi: ricordi, affetti, sogni che girano dentro proprio per il loro volume, per le loro aspettative che li rendevano accessibili; direi, con un verbo popolare, “acchiappabili”, come quando si giocava a “chiappino”.

 

Ecco, camminare e riordinare, e tenere sempre una penna e un lapis a portata di mano. C’è chi riesce, durante questi percorsi, a tracciare un piccolo diario degli accadimenti, una memoria che ricollega il passato con il futuro, qualunque essa sia. Ci vuole coraggio, grinta, forza per tutto questo. E io non parlo delle località oramai punti di riferimento globali come Lourdes, Santiago di Compostela, Assisi. No! Io preferirei una vecchissima pieve superstite nella campagna; un monastero poco conosciuto; un relitto sacro come S. Galgano. Forse, una deviazione a La Verna, anche se – mi dicono – pure quel luogo è diventato quasi “turistico”.

 

Non mi piace il chiasso, la folla, la pubblicità qualunque essa sia. Sono ormai quasi fuori da questo mondo che mi fa sentire a disagio a causa della sua barbara aggressività, dai suoi “social”, dalla tecnologia rampante e che ha ormai condizionato le nuove generazioni. Mi chiedo come mai, quando le multinazionali vanno diffondendo la voce che lavorano per noi, per i nostri bisogni, per le nostre comodità, il mio imbarazzo è sempre più crescente, così come il mio sconforto e altre amenità che non si possono citare.

 

Sia chiaro: anch’io faccio parte dell’enorme gregge globale, controllato da questa modernità irrefrenabile, peggiore di una pandemia, “se” mai questa accadesse, perché questi “soggetti” scavalcherebbero anche quella. Eppure, conservo diversi dischi in vinile, molti raccolti quando in paese, nell’unica pizzeria, funzionava un Juke-box, e quelli – passati di moda – venivano regalati. C’era il giradischi, ovviamente, e c’era la radiolina. Tutto questo faceva vivere il paese, i borghi, anche le città, con garbo, con sobrietà. Si ballava guancia a guancia (i fortunati!), e si parlava, felici di minimi affetti, di piccoli impegni, preoccupati del compito in classe o, peggio, dell’interrogazione.

Non era tutto oro che luccicava, ma eravamo frugali, modesti, umili; ricordo che eravamo felici dentro. Oggi, siamo globalizzati. Non so se sia un progresso o un regresso. So per certo che ormai appartengo alla retroguardia e, dopo di me, auguri a chi mi sostituirà. Ecco, finisce qui il mio pellegrinare; ho finito anche le scorte, e chissà (ma non credo) se mi metterò veramente in marcia per raggiungere una mèta che mi trasmetta pace e serenità. Già ora le idee si confondono e, pur continuando il mio passeggiare al chiarore dell’alba, qualche piccolo acciacco bussa al fisico. Ormai, sono all’ingresso di una riserva simile a quella degli antichi, simpatici pellerosse. Di uscire, se ne parla sottovoce; di coltivare le amicizie, una volta …; una vacanza?, il mondo mi guarda e festeggia. Cosa c’è rimasto? Nemmeno il focolare? C’è rimasto la tivvù, e basta. Così tra questa immensa mediocrità, ci troviamo a discutere con un video: più in basso, non di molto, c’è il vuoto, e più marginali non si può essere.

 

Ecco, la salvezza è pellegrinare: quella, sì, sarebbe pura poesia, per il corpo e per lo spirito. Pellegrinare come un viandante di una volta, che va cercando sé stesso in queste lande ostili e indifferenti. Partire, e seguire viottoli e stradelle, lontano dalla “civiltà”, con passo lento ma costante, trapassando boschi e selve oscure, e l’apparire, dopo l’ennesimo valico, l’immensità del mare.

 

All’orizzonte, un punto che si fa sempre più piccolo. L’ultimo augurio di compleanno che mi ha scritto Lucio, è stato profetico: “Caro Franco, un altro anno, un’altra epoca! Continuiamo così. Ma, my very good friend, i nostri anni, dove sono finiti?”

 

Forse, forse, carissimo amico, dove è quella nave che va …