Nel secolo scorso, era quasi norma, nelle famiglie meno abbienti, di creare una prole numerosa, oggi divenuta una rarità. Io l’ho conosciuta, sia da parte materna che da quella paterna: sei, fra zie e zii, per ambedue. Siccome poi, ognuno, volente o nolente, faceva la propria strada, e provenendo – di solito – da zone economicamente deboli, i fratelli e le sorelle si dividevano. Non capivi perché, ma era certo che quando queste si potevano riunire, la festa era grossa, e io vi partecipavo con tanto calore ed affetto, anche perché ero il primo dei nipoti e figlio unico. Quelle tavolate lunghe, che non finivano mai; quelle portate continue; quei colori e quei profumi, li porto dentro da sempre.

 

Tutti chiacchieravano, tutti mangiavano – perbacco!-, tutti ridevano, del passato e del presente, scambiandosi sguardi complici rammentando la loro fanciullezza e la beata, anche se povera, gioventù. Era un inno alla famiglia che, seppur non avendo raggiunto grandi ricchezze, celebrava, in quelle occasioni, la fuga dalla fame, un piccolo benessere, una gioia immensa nel ritrovarsi ancora insieme. Le mie estati a Colle di Val d’Elsa avevano, però, tutti i fratelli rimasti in città; le opportunità di lavoro non mancavano e Siena era distante solo 20 km, o poco più. Invece, la famiglia di babbo era originaria di Villa Basilica, e i collegamenti con la Valdinievole ed il capoluogo Lucca erano più difficili e quindi scomodi. Anche le mie vacanze da nonna Ida (nonno Antonio era scomparso presto), e dagli zii non avevano quella libertà assaporata a Colle, e quindi anche i miei ricordi, e divertimenti, si restringevano nelle viuzze e sulla piazza della Basilica.

 

Qualche volta babbo mi portava nel bosco per funghi; ci andavo volentieri, ma sentivo che mi mancava quello spazio aperto di cui avevo bisogno. Così, la famiglia paterna, riunitasi dopo la fine della guerra, poco tempo dopo si divise. Prima, Silvio, autieri d’ambulanza, trovò lavoro presso l’Ospedale d’Imperia; poi, lo zio Flavio, stanco delle cartiere, raggiunse il fratello e, insieme, presero in gestione un bar a Porto Maurizio, in piazza del Duomo.

 

A casa, rimase solo Enrico, ma i rapporti tra i fratelli, nonostante le difficoltà di comunicazione, non si ruppero, anzi. Di solito, la lontananza fa scivolare via gli affetti verso persone alle quali tenevi, e spesso tutto si riduceva ad una cartolina o ad una telefonata. Anche nel  mio caso, capii più tardi che la parentela si stava sfilacciando. Ma prima che si strappasse, o quasi, ebbi modo di andare a trovare gli zii due o tre volte, se ricordo bene.  Fu la prima quella che mi ha lasciato più emozioni delle altre, forse sempre per il solito motivo che quella rimane indelebile; o forse perché mi trovai immerso in un paesaggio e in un ambiente completamente diverso dal solito.

 

La Liguria, fino a quella prima volta che la visitai, era fuori dai miei minimi apprendimenti, salvo i disegni degli Atltanti, ancora un pochino limitati, della fine degli anni ’50, ed a qualche cartoline fotografiche. Quindi, tutto si limitava al capoluogo di regione, Genova, alle province, ed a qualche cittadina importante; il resto, mi era completamente sconosciuto. Quando babbo decise di andare a trovare i fratelli, ebbe modo così di approfittare della “600” verdolina appena acquistata – a cambiali – dal Morescalchi di Montecatini Terme, e mi caricò su quella. La “600”, anche perché, fisicamente, lui era piuttosto robusto, e la “500” gli stava stretta. Da subito, la curiosità e l’eccitazione presero campo in me perché questo era il primo viaggio di lungo respiro che facevo.

 

Arrivò, quindi, il giorno della partenza, con le solite raccomandazioni, ed apprensioni di mamma. Io, comunque, avevo già fatto un’esperienza negativa dell’utilitaria. Portato ancora da babbo ad assistere ad una partita di calcio a Montecatini, rimontando per tornare a casa, nel chiudere la portiera, dimenticai di togliere le dita di una mano. Allora, lo sportello era contro-vento e le chiusure non così ermetiche come lo furono più tardi; la paura fu tanta, il dolore pure, ma rimasero solo gli ematomi e niente più. Fortuna.

 

Partenza. Collodi, e poi Viareggio. Raccordo con l’Aurelia perché l’Autostrada dei Fiori era di là da venire. Giornata di sole di tarda primavera, già calda e brillante. Non sapevo cosa aspettarmi e quindi tutto m’incuriosiva. Niente di speciale, all’inizio; mentre, all’uscita dalla Toscana, Enrico cominciò a rammentare un Passo, quello del Bracco, che lo preoccupava, insieme al porto di Genova. Aveva fatto anche il camionista, quindi sapeva. Capii appena ci approcciammo a quel “famoso” Passo. Si presentò una strada tortuosa, quindi piena di tornanti e, immancabile, ecco l’impiccio: un camion con rimorchio. Subito in coda, a passo d’uomo, con i fumi della nafta che entravano nell’abitacolo, e le naturali e scontate imprecazioni verso quello. Quello che saliva, curvava, rallentava, con un ansimare perverso.

 

Riusciti a scollinare, e poi a sorpassare la “bestia”, ancora un avviso di pericolo, con un’occhiata preoccupata all’orologio. Ma tutto fu vano. Entrati in città, la strada per Imperia ti obbligava a traversarla completamente, compreso il porto. Problema? Se, nel momento in cui suonavano le sirene, non avevi attraversato, ti saresti trovato “travolto”, quasi dai “camalli”, coloro che vi lavoravano, gli allora scaricatori: non ti azzardare ad usare il clacson! Ma non potevamo partire dopo, o prima? prendemmo, quindi, anche loro, mentre di sottecchi vedevo babbo che sbuffava, come gli succedeva quando qualcosa gli andava di traverso. Però, ce la facemmo e, quasi improvvisamente, il mare, di una tinta bellissima, su una strada ancheggiante e, meraviglia, le case su quello di mille colori! Cioè, tutte avevano vasi di fiori, gerani, alle finestre, alle porte, sui terrazzini. Fu un arcobaleno, che ho ancora presente in me, tanto che tutto ciò che successe prima, fu quasi dimenticato; potrei dire che rimasi rapito da quelle pennellate che apparivano e scomparivano dopo una curva, un saliscendi, un passaggio a livello.

 

Non ho più visto un’esplosione del genere, tanto da rimanere sbalordito e affascinato da quello spettacolo. Non avemmo altri inciampi. Arrivati ad Imperia, salimmo su a Porto Maurizio e, vicino alla Cattedrale, il bar degli zii, che ci accolsero con tanto calore ed affetto. Nei pochi giorni che rimanemmo, feci conoscenza dei cugini, e modeste escursioni in città, ma non avevo le conoscenze giuste per capire la realtà che mi stava davanti agli occhi. In un’altra occasione, con mamma presente, ci spingemmo fino a Nizza, con la sua famosa Promenade del Anglais, e dove pranzammo in un ristorante sul porto, “Le Nautique”. Lo ricordo bene perché il cameriere che ci servì era italiano, e ci fece sentire in famiglia.

 

Si ebbe, questo, un pellegrinaggio a metà familiare e, successivamente, sportivo, calcistico; il primo, come già scritto, per gli zii ed i cugini; il secondo perché, nella squadra dei Blue Boys, giocavano i fratelli Sodini, Andrea e Paolo, con dei bei risultati, per loro e per tutta l’équipe. Proprio Andrea, per motivi legati ad un’amicizia di famiglia, incontrò Nathalie Dezitter, “et ça c’est l’amour”. I genitori di lei, Michel e Claudine, abitavano a La Ciotat, una cittadina della Provenza già nota per i suoi cantieri navali, ed ora trasformata in un luogo di villeggiatura. E, curiosamente, proprio qui a La Ciotat, è stato girato il primo “corto” cinematografico dai fratelli Lumière: l’arrivo di un treno alla sua stazione. Il team dei Blue Boys è stato uno dei tanti del calcio amatoriale lucchese ed era riuscito a formare un gruppo di giocatori che dettero il meglio di loro stessi nei dintorni degli anni ’90; Andrea fu la punta di diamante (123 goals in 145 partite) fu un’ossatura notevole per quei campionati.

 

Forse, la nostra età non più giovanissima contribuì a saldare i giocatori non solo agonisticamente, ma fu anche foriera di una grande amicizia che, sembra incredibile, è tuttora viva e pulsante. Quando Andrea ci comunicò (incautamente?) che si sarebbe sposato in Provenza, invitò la squadra, e 1/3 di questa disse di sì, tanto che cominciammo da subito ad organizzare l’uscita di casa perché, se l’unione fa la forza, l’amicizia travolge gli ostacoli e cementa il rapporto, grazie anche alla benevolenza delle signore, che ci concessero un “…. e sia”. Partire da Montecarlo di Lucca e raggiungere La Ciotat non fu una passeggiata. I miei lontani ricordi della Riviera di Ponente furono solo sporadici, anche se, poco prima, avevamo fatto tappa proprio ad Oneglia Maurizio ed io con le rispettive famiglie.

 

Ora, comunque, c’era l’autostrada, molto più comoda, molto pericolosa, con troppi tunnel e con il mare ed i fiori lontani, senza potersi distrarre. I Bluenauti che parteciparono a quell’invito speciale furono: Alberto Renieri, Mauro Carrara, Luciano Tafani, Maurizio Convalle, Angelino Todaro, Angelo Biondi e Franco Corsetti. Due macchine. Autostrada. Ventimiglia; poi, la Costa Azzurra, con Monaco e le altre cittadine famose. Pochi km prima di Marsiglia, uscita a La Ciotat e alloggio, prenotato al Rose The: turisti in Provenza. Questa regione del sud-est della Francia è stata resa famosa dal suo clima che, agli inizi della primavera, fa rimanere sorpresi, storditi e inebriati dal profumo delle mimose; poi, dai suoi pittori e dalla Camargue. E’ una Francia assai diversa da quella di Parigi, e non solo per il caldo. La vità è più lenta, il mare stimola le vacanze, la gente è sorridente e chiacchierona. Agli anziani, basta un rettangolo di terra per poter giocare alle bocce, “aux boules”, tra sigarette, prese in giro e uno – più! – bicchiere di vino bianco, fresco, frizzante, senza pretese, amato anche dal Commissario Maigret.

 

Noi ci fermammo 3 giorni, ma diverse ore, tra andata e ritorno, le trascorremmo in macchina. L’accoglienza dei genitori di Nathalie fu calorosa, tanto che ci misero a disposizione la piscina della loro villa che, attraverso una porticina in fondo all’edificio, permetteva di entrare nel mare: che bello! Cercammo di organizzarci nel miglior modo possibile per il poco tempo che avevamo; non ricordo se facemmo un salto nel centro, ma io assistetti, con Paolo, alla cerimonia in Comune. Poi, ci preparammo per quella in chiesa, il pomeriggio.

 

Riuscimmo a trovare, con fatica e risate, la località dove fu celebrato il matrimonio, un paesino all’interno, a circa 20 km da La Ciotat, con tutte le caratteristiche proprie conosciute dal cinema, TV e quadri. Una bella piazzetta, circondata da platani, e un bistrot, che completava romanticamente l’atmosfera. Una birra per l’attesa, che non fu breve, e che non rimase orfana. Il “solito” ritardo della sposina, che noi riempimmo con qualche sigaretta, e un parlare di tutto e di nulla, tranquillamente, radunando anche chi, tra noi, aveva sbagliato strada. Arrivo della sposa. Cerimonia. Cena. Letto tardissimo, dopo crèpes-sauzettes, e una buonanotte piuttosto rumorosa.

 

Ripartimmo presto perché il tran-tran di tutti i giorni ci aspettava. Di questa esperienza, non ci rimase molto, dentro; si vide poco e male, del piccolo mondo così diverso dal nostro. In realtà, credo, a distanza di diversi anni, un qualcosa entrò in quella parte di noi che cataloga le emozioni per il futuro, e che, lì per lì, non si afferrò. Non eravamo venuti per studiare, capire, villeggiare, ma l’atmosfera – parbleu!- era proprio differente da quella a cui eravamo ormai abituati. Certo, tutte le volte che si parte da un luogo appena conosciuto per tornare a casa, un po’ d’amaro dentro fa sempre capolino. Solo in quel momento, ci rendiamo conto di cosa abbiamo visto ma anche di cosa abbiamo lasciato; soprattutto, di ciò che non abbiamo scoperto, perso. Per questo, in un momento di riflessione, ci diciamo: dovrei ritornare. Dovrei vedere di nuovo perché tutto è stato bello o quasi, ma qualcosa mi manca, lo sento.

 

Un altro pellegrinare, da solo o in compagnia, con gli occhi di ieri, per ciò che è rimasto, o scomparso, perché è nello spirito dell’uomo cercare di ripetere certe esperienze, migliorando quelle negative, approfondendo quelle positive. Andare a Ponente, infine, è un’altra mèta che mi sono riproposto. Non ho lasciato moltissimo in questi viaggi che ho fatto, ma cerco affannosamente qualcosa che forse non è esistito, o non c’è più. E, come tutti i pellegrinaggi, il piacere e il dispiacere s’incontrano, si scontrano, e si mischiano tra loro. Però, che bello quel paesino, con la sua piazzetta e il bistrot, vicino a La Ciotat. Ho ancora negli occhi i colori accecanti del cielo e del mare, i sapori diversi dai nostri; e gli amici, carissimi, che danno un tocco di felicità anche nelle piccole, semplici, ma straordinarie esperienze.

Au revoir, Provence. A bientòt.