Home TRA FINZIONE E REALTA' FABRIZIO MARI È comunque troppo alta | Fabrizio Mari

È comunque troppo alta | Fabrizio Mari

Non ricordava dove l’avesse vista la prima volta. E neppure se indossasse una felpa bianca o una di quelle camicette talmente fini da diventare dello stesso corpo dei sogni. Ma poi l’aveva conosciuta davvero? L’aveva vista? Si ricordava soltanto che era bella. E poi quel volto, che pareva dipinto da mano angelica.

Sussultò quando la vide lì seduta su quella panchina, immersa nell’ombra fresca dell’estate insieme con i suoi pensieri: era decisamente bella. E però non era una bellezza ordinaria. Emanava un non so che di algido, come se provenisse da qualche paese scandinavo, ma poi rifletté che a volte, se siamo fortunati, il paradiso può essere davvero a portata di mano, basta crederci. E poi quegli occhi, che avrebbero fatto perdere la rotta anche al più esperto dei marinai. Lui pensò che lei lo sapesse, perché li teneva bassi, altrimenti avrebbero ferito parecchie persone.

Pensò di darle la mano durante lo scambio dei nomi, ma la ritenne una roba improbabile; baciarla sulla guancia, addirittura, avrebbe richiesto il parere scritto del vescovo; portarla a cena, oh mamma, non sapeva se sarebbe bastata una lettera patente della regina di Inghilterra.

Purtroppo non si decide di amare. Non si può programmare. L’amore non si impone. È un accidente, un fatto involontario. Accade. Come la maionese impazzita o i petali della gardenia che cadono per terra. È come un’aria di Gluck, che ti arriva dritta al cuore e non puoi farci nulla. L’ascolti e guardi gli occhi della tua amata. Se sei fortunato. Altrimenti esci fuori di testa.

E questo è orribile. Io che scrivo non ve lo auguro per nulla al mondo. So cosa voglia dire. E lei era sempre lì seduta a leggere un libro dalla copertina rossa.

Per un attimo, aveva dimenticato come le donne che aveva conosciuto nel corso degli ultimi mesi avessero potuto modificare le loro granitiche certezze. Lui non era né un blocco di granito né di marmo, bensì una barra di stagno. Malleabile con le nude mani, a loro volta libere di volteggiare e di sfiorare, come quando cercavamo da fanciulli sotto il banchino la mano dell’amichetta seduta a fianco, che sbirciava con le gote rosse il tema che stavamo scrivendo.

E però lui non ricordava il suo nome. Gli venne solo in mente che era alta. E bella. Era come il vento che ti soffia sulla nuca, ti sfiora i capelli, ti fa rizzare i capezzoli ed infine ti abbraccia stretto e non sai se fermarti o proseguire. Una donna che avrà avuto più o meno ottanta anni passò davanti a lui. Era pure lei bellissima. Aveva davvero pensato questo? Sì, e lei se ne accorse.

Lei si sedette sulla tavoletta dell’altalena lì di fronte al Bar Stella e volle volare un pochino, ridendo come ai tempi del ginnasio.

Lui staccò gli occhi da quella splendida ottantenne e ritornò con la mente a lei, di cinquanta anni più giovane. Aveva ragione il suo frate confessore: l’amore è sempre giovane, non conosce età né barriere. L’amore è.

Il nome della trentenne era breve, non più di due sillabe. Una roba tipo Sara, Chiara, Mara, però cominciava con la G. Non ricordava. Però un nome con la G. a lui sarebbe piaciuto. Aveva conosciuto da poco una ragazza il cui nome iniziava con la G.

Tipo Greta, ma non era Greta.

Dipingeva nature morte, cose strane; mele, oleandri, coltelli, insetti. Robe inquietanti. A volte le donne belle fanno cose inquietanti, tipo disegnare insetti feriti a morte da un coltello affilatissimo. Forse davvero il suo nome cominciava con la G., ma alla fine non ne era poi tanto sicuro.