C’è una regola aurea che dovrebbe ispirare chi sceglie i ministri che dovranno occuparsi di scuola e istruzione: far riferimento a persone che nella scuola ci lavorano e che la scuola la conoscono. Questo semplice accorgimento, in passato disatteso molte volte (Moratti, Fioroni, Mussi, Gelmini, per citare quattro ministri che si sono avvicendati nel corso degli Anni Duemila), sembrerebbe ovvio: la scuola italiana è un’istituzione troppo complessa perché sia gestita da chi non ne conosca le dinamiche interne, i problemi strutturali vecchi di decenni, le spinte al rinnovamento. Eppure.
È difficile dire quali siano secondo me le riforme più urgenti da attuare: partirò da ciò che conosco meglio, in quanto docente, ovvero la didattica e i suoi tempi. I programmi delle mie materie, la Storia e l’Italiano, forse andrebbero rivisti, e sono certa che molti colleghi sarebbero d’accordo con me. È impensabile, se non si fanno tagli arbitrari e dolorosi, andare oltre gli autori della prima metà del Novecento o oltre la Seconda Guerra Mondiale e la nascita della Repubblica. Nel corso dell’intero ciclo di istruzione obbligatoria ci sono argomenti che si toccano più volte (la storia di Roma) e argomenti che non si affrontano mai se non per sommi capi (la Guerra fredda, gli Anni Novanta), ed è un peccato, perché sarebbero i più utili per comprendere e decodificare il mondo di oggi. Sono certa che la stessa cosa avvenga nelle discipline scientifiche, anche se probabilmente in misura minore.
Un altro aspetto da rivedere sarebbe il monte orario. Nel corso del tempo ho assistito a una progressiva riduzione del numero di ore, e dunque di materie, che i ragazzi sono tenuti a seguire settimanalmente; il taglio ha riguardato soprattutto gli istituti professionali e tecnici, con conseguenze spesso surreali, come l’eliminazione della Botanica dagli istituti tecnici agrari, o la scomparsa delle ore di laboratorio dai bienni dei professionali. Per fortuna, a scuola ci siamo sempre riorganizzati per rimediare, in qualche modo, a questi errori di progettazione dei curricoli, che rispondevano a un’unica logica, quella del risparmio e dei tagli lineari. Nella scuola, dopo anni di cattive riforme, disinteresse e sforbiciate, si è ricominciato a investire solo in tempi recenti, e purtroppo c’è voluta una pandemia per capire quale ruolo fondamentale essa rivesta per le famiglie e i ragazzi stessi, i primi a rendersi conto di quanto più povera sia la loro vita senza.
Dirò poi una cosa che a molti suonerà impopolare. Negli ultimi anni, in particolare da quando è entrata in vigore la Legge 107 cosiddetta della Buona scuola, l’orientamento generale del Ministero è stato quello di incentivare le competenze di tipo informatico, l’apertura al mondo del lavoro con le attività di alternanza (che oggi si chiamano PCTO: Percorsi per le competenze traversali e di orientamento, in pratica le ore di stage che i ragazzi, durante l’anno, sono tenuti a svolgere in azienda), e, ultima novità di quest’anno, le competenze di Cittadinanza attiva. Ovvero l’Educazione civica, suddivisa in ambiti che affrontano tematiche diverse, dall’educazione ambientale a quella digitale, dalle conoscenze relative alla salute e all’alimentazione all’approfondimento degli articoli della nostra Costituzione.
Quelli che ho citato sono tutti argomenti affascinanti e in larga misura necessari alla formazione dei ragazzi. C’è un problema, tuttavia, e un aspetto che li accomuna tutti. Sono a costo zero, o meglio, a investimento zero. Mi spiego meglio: portare avanti questi progetti è delegato agli insegnanti curricolari, che percepiscono un compenso per occuparsene, ma devono sottrarre ore alla didattica. L’alternanza scuola-lavoro, ad esempio, si svolge in gran parte durante l’anno, e comporta ritardi e interruzioni nello svolgimento dei programmi. L’affanno del dover star dietro a tutto si è visto in particolare con la recente introduzione dell’Educazione Civica: 33 ore annue da distribuire tra varie discipline, ma senza contestualmente operare una riduzione dei programmi curricolari o concedere ore in più.
Riguardo a questo: i docenti, checché se ne dica, non è che non vogliono lavorare di più. Spesso chiedono semplicemente di poter lavorare meglio.
Ecco perché il Ministero dell’Istruzione dovrebbe essere diretto da un insegnante, o da un preside: non c’è nessuno che più di loro conosca il significato di questa espressione, “lavorare meglio”, e che potrebbe spiegarlo a coloro che poi votano le riforme. Se poi, addirittura, ci consultassero, cosa che non avviene mai, sarebbe il massimo.