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Dispersione scolastica in Italia: uno studente su sette non arriva neanche al diploma | Stefania Berti

Secondo le stime più aggiornate[1] della Commissione europea che si occupa di istruzione e dispersione scolastica, nel nostro paese il tasso di abbandono è in calo, ma resta tra i più alti dell’Unione. Più del 13% degli studenti nella fascia di età compresa tra i 18 e i 24 anni abbandonano precocemente l’istruzione e la formazione, mentre in Europa la media si attesta attorno al 10%. Sono più i maschi delle femmine a uscire dal circuito scolastico, in particolare se vivono al Sud o se sono nati all’estero e emigrati da noi quando erano in età prescolare. Un altro dato allarmante, che costituisce un record negativo nei paesi Ocse, è che l’Italia ha la maggior percentuale di adulti in età lavorativa in possesso solo della licenza media: si tratta del 33% del totale. Un dato che ci allontana da paesi come la Germania o il Regno Unito, dove solo rispettivamente il 14 e il 19% degli adulti lavora senza essere in possesso della licenza media.

 

L’ Italia si conferma agli ultimi posti anche per numero di laureati: soltanto il 27,6% dei giovani tra i 30 e 34 anni ha completato gli studi universitari, contro il 40,3% della media Ue.

 

Si tratta di cifre sconfortanti, che meritano una riflessione approfondita. Le ragioni sono molte, e di vario genere: sono legate a difficoltà contingenti, ma possono avere anche radici più profonde. Spesso il problema della dispersione scolastica risiede nell’impossibilità di molte famiglie di farsi carico delle spese che l’istruzione comporta: si tratta delle spese vive – libri, materiale scolastico, trasporti, ecc. – ma anche dei mancati introiti che la scelta di far studiare i propri figli comporta. Posto che l’obbligo scolastico è in vigore fino ai 16 anni, e che nessuna azienda può assumere un minore di 16 anni, ci sono comunque molti modi per aggirare i divieti: dal lavoro nero a quello nelle attività familiari, per non parlare dell’arruolamento in bande dedite a attività criminali che operano in zone dove la presenza dello Stato sul territorio è quasi del tutto assente.

 

In pratica, nonostante il lavoro minorile in Italia sia fuorilegge fin dal 1967, non esiste un vero e proprio sistema di monitoraggio nazionale, quindi ogni anno si verificano migliaia di violazioni penali. Gli insegnanti e i presidi possono fare poco, se non allertare nei casi peggiori i servizi sociali, ma spesso sono le stesse famiglie ad allontanare i ragazzi dalla scuola; e se i ragazzi appartengono a minoranze etnico-linguistiche, o sono stranieri richiedenti asilo, o vivono in contesti di degrado socioeconomico le resistenze spesso diventano insuperabili. Questi ragazzi, semplicemente, spariscono dal radar della scuola.

 

Un altro motivo per l’abbandono scolastico può risiedere nel cattivo rapporto che talvolta si crea tra lo studente e gli attori che si occupano della sua istruzione, o con i compagni di viaggio che lo affiancano. Casi di bocciature ripetute, di difficoltà nello studio legate a vari fattori, di bullismo perpetrato a danno dei soggetti più fragili, incidono senz’altro sulla dispersione; ma sono quasi sempre concause, che agiscono in concomitanza con altri tipi di fragilità – economiche, culturali – e fanno capo alla famiglia.

 

Eppure, nessuno mi toglie dalla testa che la dispersione scolastica nel nostro paese abbia anche motivazioni di altro genere. A partire dagli Anni Novanta è iniziata una campagna di delegittimazione della scuola che ha trovato larga eco sui canali della tv generalista. In qualche modo l’ambizione allo studio e al sapere è stata sostituita da altri tipi di ambizioni che sembravano più a portata di mano. È passato il messaggio che esistessero altri modi, meno faticosi, per affermarsi, e che i soggetti che avevano dedicato vita e carriere all’istruzione fossero né più né meno che falliti: l’espressione “gufi e professoroni” con cui si prende in giro nei talk show chi ha studiato è solo l’epitome di un processo di caricaturizzazione iniziato molti anni fa.

 

In qualche modo la politica – destra, sinistra, poco importa – ha dato il via: da un lato nel perseguire il progetto di un popolo poco acculturato, anestetizzato da programmi spazzatura e dal continuo deprezzamento e depotenziamento della scuola, dall’altro nel trattare chi acculturato non era con superiorità e sarcasmo, senza mai proporre uno straccio di alternativa efficace.

Per decenni nella scuola sono state smantellate risorse e tagliati fondi, salvo poi realizzare con sconcerto che la scuola funzionava sempre peggio. I dati negativi di oggi non sono altro che il risultato di un lungo percorso di depotenziamento che è iniziato quando sui banchi delle superiori ci studiavo io. Stupirsene è da ingenui; prenderne atto dovrebbe essere il primo passo per invertire la rotta.