Pioveva. E pure dentro i suoi occhi.

Piccole gocce d’acqua rimbalzavano di foglia in foglia e di ramo in ramo durante quella notte che pareva non finire mai e che profumava di tiglio ormai maturo.

 

I flebili raggi della luna illuminavano ora sì ora no, per colpa del forte vento, quelle gocciole in bilico sulle punte arrugginite delle foglie, indecise se cadere o no.

Qualcuna aveva deciso di precipitare giù, ma molte erano quelle indecise.

Chi non cade non può sapere cosa vuol dire rialzarsi. Potrebbe essere una frase fatta, ma non funziona con le gocce che stanno aggrappate sul precipizio. Nessuno ha detto loro di stare lì. Ma lì stanno perché hanno assaporato il brivido della vita e lì vorrebbero stare perché anche se hanno paura vogliono provare come ci si sente in pericolo, come si sta male, e come a volte si piange e se ci si guarda intorno con gli occhi spalancati nessuno vediamo intorno a noi e si prova a stare sull’orlo del baratro, che quasi ci affascina, afferrando il profumo acre della morte che viene a darci la mano con gentilezza.

 

Perché la morte è così. Terribile, ma giusta e gentile. Vede e sente tutto la morte, anche quando non sentiamo il suo respiro.

La morte è una nuova vita.         

 

Lucia guardò fuori dalla finestra della cucina. E Lucia era bella. E si sentiva forte. Si guardò la mano destra che sanguinava. Smise di stringere il coltello e lo posò vicino al bicchiere dentro il lavello. Non aveva niente da dirsi. Tutto era ormai compiuto.

Si fece una doccia con il nuovo shampoo al profumo di gelsomino. Le ricordava quando suo nonno, sarà stato oltre quarant’anni prima, la prendeva per mano e la conduceva sotto il pergolato di gelsomini e lì, una volta seduti su una vecchia panchina di legno, le raccontava certe fiabe bellissime che la facevano piangere.

Uscì dal box doccia e quasi non si ricordava di quel corpo seminudo di Fabio che giaceva lì davanti a sé, morto con una feroce coltellata al cuore.