Home TRA FINZIONE E REALTA' FABRIZIO MARI Carnevale col morto | Fabrizio Mari

Carnevale col morto | Fabrizio Mari

Ero il capitan Harlock. Ed ero piuttosto bellino conciato a quel modo.

 

O almeno così mi diceva nonna.

 

Pochi giorni prima del carnevale, però, il prete ci aveva detto, mentre si faceva dottrina il sabato pomeriggio dalle tre alle cinque, in quella stanzina fredda come le dita di una morta, che era meglio non andare a giro mascherati. Non stava bene. Non era da cristiani.

 

C’erano già loro, disse a voce alta una mia amichetta piuttosto impertinente, molto più di me, e non volevano avere altri concorrenti alla gara di chi fosse più ridicolo.

Si chiama Silvia. Ora, dopo un estenuante tirocinio, prima a Latina e poi ad Ivrea, fa l’avvocato a Pistoia. Ed è molto in gamba. Ed ha gli occhi più belli di questo mondo.

 

Chiamatemi se avete bisogno di lei. Si occupa di penale e vi offre sempre il caffè anche quando perde le cause. Non saprei come fare se non avessi la mia Silvia.

Voi non avete idea di quando veniva a trovarmi la Silvia, che avrà avuto sette anni, a casa. Mia nonna, che si chiamava come lei, le preparava sempre certi dolcetti che voi nemmeno immaginate.

 

Dicevo a nonna che forse sarebbe passata a trovarmi Silvia per la merenda e nonna allora toglieva subito dalla seggiola il grembiale rosso e se lo legava alla svelta alla vita e poi mi mandava a prendere giù le uova nel pollaio.

Io scendevo le scale di corsa con le mie ciabatte gialle di plastica traforate ed entravo nel pollaio a vedere se le galline avevano fatto le uova. Avevamo un bel numero di galline, quasi una ventina, ed un paio di galli rossi come la bandiera comunista che il nostro vicino sventolava dal terrazzo almeno un paio di volte l’anno. O forse più, non ricordo bene.

 

Nonna amava le sue galline. Quasi non avrebbe voluto ammazzarle. Che poi vedevo come faceva, anche se lei pensava che non la vedessi. Le prendeva con gentilezza, le accarezzava, e poi, ad un tratto, la mano destra afferrava il collo ed ecco che l’anima della gallina volava in cielo.

 

Chi sa se il mio prete credeva che le galline avessero un’anima. Non so se fosse stato d’accordo, però quando veniva da noi a pranzo, eccome se mangiava il pollo arrosto o la gallina lessa! Ecco, queste cose io non le ho mai capite. Misteri della fede, dicono. E lo diceva pure lui.

 

Nonna chiamava tutte le sue galline per nome: ricordo c’era Clizia, Aspide, Bruna, Luna, Fiamma, Nina, Oriana, come la scrittrice, che nonna ammirava parecchio e che mi aveva detto che l’aveva vista una volta a Firenze al mercato di San Lorenzo a comprare una borsa. E che portava un foulard giallo e viola che l’avrebbero riconosciuta da Maiano.

 

Io da Harlock ero bellino e nonna quel pomeriggio mi accompagnò dal mio amico Stefano che abitava vicino al cimitero. Ricordo che ci divertimmo parecchio, anche se vidi almeno due volte il mio prete con la stola viola ed aveva una faccina triste triste come se fosse stato lui il morto.

Tutti quelli che erano dietro di lui piangevano e guardavano il caro estinto che avrebbe, credo, stretto la mano a Dio di lì a poco.

Così almeno ci diceva il prete a dottrina il sabato pomeriggio.