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Le tecniche di diagnosi prenatale | LAMM

Le tecniche di diagnosi prenatale comprendono indagini strumentali e di laboratorio con l’obiettivo di monitorare il concepito, a partire dalle prime fasi dello sviluppo embrionale fino ai momenti che precedono il parto.

L’ecografia prenatale, cioè il monitoraggio della gravidanza mediante ultrasuoni, è la tecnica non invasiva di diagnosi prenatale più importante e diffusa. Viene impiegata per monitorare lo sviluppo dell’embrione e del feto, verificarne il benessere, seguire l’evoluzione della gravidanza e come supporto alle indagini invasive che prevedono l’acquisizione di tessuti fetali. La non invasività e l’innocuità della tecnica, che ne consente la ripetizione nel corso della gravidanza, insieme all’elevato grado di risoluzione ottenuta con le apparecchiature di ultima generazione, giustificano la straordinaria diffusione dell’ecografia prenatale che, nei paesi industrializzati, viene utilizzata pressoché in tutte le gravidanze, proponendosi come un vero e proprio strumento di screening prenatale.

L’amniocentesi è la tecnica invasiva di diagnosi prenatale maggiormente utilizzata, finalizzata all’acquisizione, mediante puntura transaddominale, sotto controllo ecografico, del liquido amniotico, idealmente attorno alla XV-XVI settimana di gestazione. Il rischio di aborto, collegato all’invasività della tecnica, è calcolato in circa lo 0,5%.

La villocentesi è una tecnica invasiva, utilizzata per il prelievo del trofoblasto mediante puntura transaddominale, sotto controllo ecografico, idealmente attorno alla X-XII settimana. Il rischio di aborto, collegato all’invasività della tecnica, è circa 2-3%, ma varia significativamente in rapporto all’esperienza dell’operatore. La villocentesi permette di acquisire materiale biologico in quantità relativamente abbondanti ed è perciò la tecnica di elezione per la diagnosi molecolare dei geni-malattia e per le analisi biochimiche.

Gli screening prenatali non invasivi si basano essenzialmente sull’analisi di marcatori biochimici sul sangue materno, combinati con le indagini ecografiche. Il triplo-test (o tri-test) basato sul dosaggio, nel secondo trimestre, dell’AFP, della gonadotropina corionica e dell’estriolo non coniugato, combinato con l’età materna e con l’età gestazionale misurata ecograficamente, consentiva di predire circa il 65% delle Sindromi di Down (Trisomia 21- T21), con una percentuale di falsi positivi compresa tra il 5 ed il 10%. I marcatori biochimici sono stati integrati con quelli ecografici, in particolare l’analisi dello spessore della cute nucale (translucenza nucale – TN), che tra l’XI e la XIV settimana diagnostica circa il 75% dei casi di T21, con una percentuale di falsi positivi del 5%.

Negli ultimi anni si è affermato il bi-test, che utilizza il sangue materno attorno alla XI settimana, sul quale viene dosata la frazione libera della beta gonadotropina corionica ed una glicoproteina ad elevato peso molecolare, la PAPP-A. Questa analisi, integrata con la misurazione della TN e l’età materna, predice circa l’80% delle T21, con una percentuale di falsi positivi pari a circa il 6%.

Da alcuni anni è possibile utilizzare una nuovissima metodica di analisi molecolare (NIPT) che permette di indagare il DNA fetale estratto dal sangue materno. È stato infatti dimostrato che, a partire dal primo trimestre di gravidanza, è presente nel circolo ematico materno DNA libero di origine fetale (cell free fetal DNA, cffDNA), che può essere recuperato in maniera non-invasiva ed utilizzato per lo studio di alcune patologie fetali.

Le tecniche in uso analizzano il cfDNA totale, senza differenziare quello fetale da quello materno. Trattandosi, di fatto, di indagini basate su una commistione di DNA materno e placentare, il NIPT non è un test diagnostico, ma di screening. Infatti, come nei test tradizionali, l’impiego di algoritmi dedicati permette di definire la probabilità posttest che il feto sia affetto da una delle principali trisomie autosomiche, Sindrome di Down, Sindrome di Edwards o trisomia 18 (T18), Sindrome di Patau o trisomia 13 (T13) o da un’ aneuploidia dei cromosomi sessuali (X, XXX, XXY, XYY), analizzando selettivamente il numero dei frammenti di cffDNA contribuiti da ciascuno dei cromosomi oggetto del test.
Si tratta di uno screening prenatale non invasivo, che ha una sensibilità più elevata rispetto agli attuali test di screening che combinano le analisi biochimiche e la translucenza nucale, che possono precedere o meno i test diagnostici invasivi; riduce drasticamente il ricorso alle indagini diagnostiche invasive, abbattendo il numero degli aborti collegati alle tecniche di prelievo dei tessuti fetali e le possibili, ancorché rare, complicanze per le gestanti. Al momento lo screening è mirato a tre trisomie autosomiche, rispetto alle quali un’elevata percentuale di donne già ora richiede di essere informata, riducendo pertanto il ricorso inappropriato ai test genetici, limitatamente alle trisomie citate, permettendo di tranquillizzare e diminuire l’ansia della gestante.

È comunque bene ribadire che il NIPT non è un test diagnostico. Il test verifica la possibilità che il feto sia affetto dalle più comuni aneuploidie, con una specificità e sensibilità significativamente superiori rispetto allo screening non invasivo combinato: ogni risultato positivo deve essere comunque confermato con una tecnica invasiva tradizionale (villocentesi /amniocentesi).
Il test deve essere preceduto da un’ecografia e dalla consulenza pre-test, che ha il compito di illustrare il significato del test e tutte le opzioni alternative disponibili per il monitoraggio della gravidanza.