La peste arriva a Pescia, in età moderna, il 24 maggio 1631, quando nel registro dei Deputati di Sanità viene annotato il nome di una certa Ortensia, che risulta così essere la prima vittima del contagio.
Il Comune, già nel gennaio 1629, aveva per precauzione ordinato di chiudere tutte le porte cittadine e di rafforzare i controlli soprattutto alle persone ed alle merci in entrata; quell’anno, scrive un cronachista, fu «assai penurioso di viveri», col grano che ascese alla somma di otto lire lo staio, quando normalmente costava meno della metà. Nel novembre dello stesso anno il granduca Ferdinando II scrive al vicario di Pescia, ricordandogli le misure necessarie per contrastare l’avanzata del morbo; dà l’ordine di svuotare i pozzi neri e di pulire la gora che passa sotto le case che si affacciano sulla piazza, l’odierna piazza Mazzini.
Nel 1630, in seno alla confraternita di Misericordia, si propone di edificare un «lazzaretto per curare li ammalati», stanziando trentacinque lire al mese per sei mesi; in seguito, furono scelte le chiese di San Rocco e Santa Croce, entrambe ne il Prato, dove vi erano anche la chiesa ed il convento di San Francesco e l’ospedale e chiesa di Sant’Antonio Abate. Nei momenti più crudi della virulenza furono predisposti altri due lazzaretti: uno in località Arcipressi e l’altro presso la casa e orto di Lorenzo Simoni, entrambe aree non esattamente identificabili.
Nei primi mesi del 1631 Firenze invia a Pescia farmaci, soldi ed uomini. Ortensia, come abbiamo visto all’inizio, muore il 24 maggio. Il 18 giugno i registri riportano i nomi di ben cinquanta pesciatini morti per peste. L’ultima morta, sul finire dello stesso anno, è Dionora di Virgilio. Nel gennaio termina il contagio.
Si conteranno oltre tremila morti di peste nella sola terra di Pescia.