Albergo Quattro nazioni, Firenze, 20 agosto 1812
A donna Patrizia, luce del mio cuore e fiamma della mia mente;
Vi scrivo, dolce amica mia, questa lettera breve con mano tremante e cuore fremente.
Oggi si celebra il grande santo Bernardo di Chiaravalle. Qui a Firenze, dove mi trovo alloggiato diladdarno da qualche dì, odo le campane sin da stamane e vedo dalla finestra un via vai di donne e uomini e bambini che dal contado entrano tutti vestiti a festa dalle porte cittadine. Mi sento un temerario a scrivervi, lo so. E pure so che questo segreto tra di noi non può restare chiuso nel mio petto un giorno, un’ora, un minuto di più: occorre che vi spieghi quale è stata la passione che tutta porta a voi, da quella mattina che per la prima volta vi vidi. Gli occhi miei che bramavano di vedervi, in un incontro qualsiasi, trovarono subitaneamente pace quando incontrarono i vostri, incandescenti e mobilissimi. Capii che avrei potuto amarvi in semplicità di cuore e di affetti. Perdonatemi se ho pensato questo, offendendovi. Anzi, no, non perdonatemi affatto, perché ho pagato amaramente questo mio atto di mera superbia. Credetemi, non passa mai giorno ch’io non discorra meco di voi, pur quel vostro bel nome che mi scintilla dentro il cuore mio e mi corre agli occhi mi ha stamattina scosso la mente e l’anima tutta mentre stava per pigliare la penna in mano.
Vi do qualche notizia di me medesimo; io me ne sto qui in questa cameruccia picciola ma graziosa e bene ordinata anche con fiori freschi colti, immagino, nelle campagne qui vicine, e solo la sera mi ritiro solitario alle mie scritture e letture. La candela di notte è ancora amica mia e forte ed è l’unica luce che mi stringe il cuore, ma nulla al confronto alla dolcezza che mi offre la visione degli occhi vostri, che scintillano pur nella notte più orribile e drammatica.
Ho ricevuto qui poche ore fa la vostra del 10, che mi ha cavato le lacrime e fatto sentire piccolino e fuori tempo, al pari di un neonato che cerca il latte dal sen della madre sua. Il mio cuore s’è fatto in questi giorni aspro e duro, ma voi sapete l’arte di intenerirlo e renderlo docile. Vi parlerò col cuore nella mia mano: le cose mie non vanno male, ma malissimo e mi trovo in bisogno estremo, e solo il bel ricordo che ho di voi mi fa stare, non dico allegro, bensì quieto, che è poi l’atteggiamento dell’uomo quando ha una occupazione mentale più che buona nei confronti di un’altra persona verso la quale prova certi dolci affetti, i quali sono di quei medesimi che io stesso provo verso voi.
Contentatevi della brutta edizione di questa lettera mia; non ho per oggi carta migliore.
Da gran tempo mi distrugge il desiderio di venire a vedervi ed a portarvi qualche piccolo aiuto, ma ogni giorno sorge un nuovo accidente e così mi trovo a differire purtroppo sempre all’indomani. Ad ogni modo verrò costà a Monsummano, anche ch’io dovessi venire a piedi. Non avrei lasciato voi senza aiuto né lettere, ma mi è stato del tutto impossibile; non so nulla di certo, e ho da mantenere in caldo il mio cuore, che galoppa verso voi, che siete l’alba che sorge ogni dì e che vorrei mai tramontasse.
Ho portato la lettera a letto e cercherò di chiuderla a breve; sento che il sonno mi sta chiamando e mi tenta con la sua voce suadente e colma di miele, nulla però a confronto con la dolcezza degli occhi vostri; m’addormenterò forse prima dell’alba, spero, quando sarò fuori del pensiero di pensarvi e di scrivervi. Sto qui pensando, tra queste immacolate lenzuola di lino, a voi; preparatemi un migliaio di baci, ch’io vorrò succhiarli tutti dalla vostra dolce bocca, prenderli tutti e tenerli nascosti per ore entro il nostro segreto giaciglio di Monsummano…
La posta partirà tra poco, a quanto mi dice il garzone che aiuta ogni tanto qui in albergo. Mi sta simpatico, è un bravo ragazzo originario di Pescia, terra che visitai lo scorso anno, ospite de’ Cecchi della Marzalla. Tra poche ore partirò per Monsummano, dove conto di arrivare in tarda mattinata; e lì ardirei di poter almeno accarezzare gli occhi dolci vostri.
Ora addio di nuovo e dalle viscere mie; e un bacio che vi mando con purissima insieme e caldissima e soavissima voluttà. Si può dire ch’io muoia ma non ch’io non v’ami.
Addio.