Home TRA FINZIONE E REALTA' FABRIZIO MARI Il suono della vendetta | Fabrizio Mari

Il suono della vendetta | Fabrizio Mari

Seduto composto sul sedile della carrozza del treno, accanto ad una bella ultrasettantenne con le cosce di fuori – che leggeva avidamente il Corriere – meditavo su cosa avrei dovuto fare. Lei era intenta nella lettura, ma ogni tanto scorgevo che mi osservava incuriosita, perché ero scosso. Si vedeva che avevo smesso di piangere da poco e che ero turbato. Avevo gli occhi rossi ed umidi e spostavo di continuo le gambe come fanno gli psicopatici. Ma non ero psicopatico e non lo sono tuttora. O almeno credo.

Lei intanto continuava a leggere ed io, non visto – spero – buttavo sovente un occhio su quelle cosce antiche che parevano due pioppi, come se ne trovano tanti dalle nostre parti. Vidi che non aveva le calze ed era già ottobre inoltrato. Cercai un suo sguardo, che però non arrivò, e quindi mi buttai di nuovo dentro i miei pensieri, che erano piuttosto seri, altro che quelle splendide cosce!

Mi rendevo conto di come stessi e a che cosa pensassi, ma non mi curavo ora tanto di lei, che accanto a me continuava a leggere ed ogni tanto – non vista – mi guardava. Mi tremavano le mani e spostavo di continuo la pistola che avevo con me nello zaino. Avevo paura? No, ero tranquillo; sapevo a quale stazione scendere, a quale casa bussare e cosa dovevo fare. Ormai il piano era lucidamente realizzato nella mia mente. Dovevo soltanto scendere dal treno, fare qualche centinaio di metri a piedi, arrivare a casa di lui, bussare educatamente, parlare con lui in modo civile, fare quello che dovevo fare e poi tutto sarebbe finalmente finito.

L’avrei di sicuro trovato in casa, seduto a scrivere al portatile che gli avevo regalato per il suo compleanno. Lui mi avrebbe salutato come al suo solito, cioè con un sorrisino ebete ed una dolce pacca sulle spalle, che ho sempre odiato. Non ho mai capito perché la gente ha lo stramaledetto viziaccio di toccarti quando ti parla. E se uno non volesse essere toccato? Sono ammessi solo i baci e le carezze, grazie. Anzi, ad essere sinceri, assai più i baci che le carezze.

Il treno si fermò con fatica proprio di fronte all’entrata dei bagni della stazione dove dovevo scendere. Salutai gentilmente la vegliarda dalle belle gambe e lei mi rispose facendomi l’occhiolino ed aprendole impercettibilmente. Ero tranquillo. Scesi dal treno, andai al bar, presi un caffè, pagai ed uscii, e fu lì che di nuovo controllai tastando dentro lo zaino se la pistola fosse sempre lì. C’era. Ovvio. E dove doveva scappare, se no?

Mi incamminai verso casa sua. Alla farmacia svoltai a destra ed arrivai a metà del viale Carducci, dove svoltai questa volta a sinistra sul corso Leopardi, dove mi fermai al civico 50. La casa del bastardo, dell’infame. Ora l’odio mi stava montando. Prima sul treno, saranno state quelle cosce, ero tranquillo, ma ora alla vista del numero civico e del suo cognome scritto a mano in stampatello sul citofono mi avevano fatto venire a galla un turbinio misto a rabbia, rancore, vendetta. E la pistola, controllai, era sempre dentro lo zaino.

Perché lo aveva fatto? Cosa gli era passato in mente quella sera quando eravamo lui, la Francesca ed io, spensierati ed allegri, a festeggiare il compleanno di suo fratello Simone? Come poteva pensare di compiere un simile atto osceno senza pagarne le drammatiche conseguenze? Quando lo seppi non potevo credere alle parole di Francesca, che poi le ripeté ad un carabiniere non troppo sveglio quella mattina di quel dannato 11 agosto di tre anni fa. Ne parlarono pure i giornali. Fu un atto orribile. Tutti poi ne siamo usciti sconvolti, ma la vita deve andare avanti, lo dice anche il prete durante l’omelia per qualunque morto che gli tocca condurre al camposanto.

Ero davanti a quel portone. Suonai. Non feci in tempo a vederlo seduto davanti al portatile che gli avevo regalato che estrassi la pistola dallo zaino e con una precisione chirurgica gli sparai al cuore, senza nemmeno dirgli buonasera.