La pioggia stava diminuendo pian piano e lei, che aveva indosso una camicetta bianca, decolleté rosso fuoco, una gonna nera che le lambiva le ginocchia ed un foulard giallo ocra che le copriva la testa, non si volle perdere d’animo. Oramai aveva accettato la sfida e voleva fargli vedere di cosa fosse capace una insegnante di letteratura greca sì alle prime armi – aveva ventisette anni – e nonostante fosse un poco in carne lei si vedeva non bella, ma bellissima.
Aveva un viso regolare, incorniciato da lunghi capelli neri, che le scendevano sulle spalle, forse un poco massicce, ma tutti gli uomini su questo mondo vogliono essere abbracciati da donne che hanno le spalle e le braccia sicure. È la donna che dà la vita ed è lei che aiuta, che consola e che ha sempre pronto un fazzoletto per asciugare le lacrime di chi si trova in difficoltà.
Lei era sicura di sé, forte della sua laurea in letteratura greca discussa qualche anno prima a Pisa. Camminava su quel terreno fangoso mentre ora anche il vento le scuoteva i suoi bei capelli corvini. Ogni tanto inciampava – i centimetri dei tacchi erano forse troppi – ma lei, come sempre, del resto, una volta caduta si rialzava e proseguiva dritto verso la casa di lui, che aveva all’improvviso deciso di non vederla mai più. Ce ne fossero di donne come lei che decidono di prendere in pugno la situazione e non si fanno scoraggiare nemmeno da una pioggia insidiosa!
Era successo tutto in una calda serata di agosto. Lei lo aveva conosciuto nel bar del paese. Erano soli e subito capirono di esserlo ancor prima che gli occhi si posassero sui loro corpi. Erano giovani, lui forse era sulla trentina, ed appena lei entrò per ordinare il suo solito gin e campari, gli occhi di lui avvamparono. Lei lo avvertì immediatamente. Sentì subito il frusciare della lussuria che usciva dai suoi occhi avidi, che volevano possederla. Si piaceva da morire, lei, era sicura di sé, era una bella figliola burrosa, di buona famiglia, con un seno importante ed un buon lavoro. Lei adorava il suo bel seno florido e non perdeva occasione di porlo in evidenza ogni volta che lei voleva farlo. Beatrice era bellissima e solo lei poteva disporre della sua vita.
Decise di fare un poco la civetta con quel ragazzo che continuava a fissarla quasi come se fosse in preda ad un delirio amoroso. Lei beveva il suo gin e campari mentre lui aveva ordinato una coca media col limone, ma su questa cosa lei preferì glissare. Si sentiva i suoi dolci occhi addosso. Fu lei a muoversi, decisa e diretta come un fulmine nel cuore di una notte d’estate.
Si presentò a lui, Gianni, un pannocchione alto quasi due metri, con due occhi che avrebbero steso una fattucchiera. Parlarono subito ed entrarono in sintonia all’istante. Fecero appena in tempo a scambiarsi i rispettivi numeri del cellulare, quando lui ricevette una telefonata da suo fratello e dovette uscire subito da quell’affollato bar. Lui si scusò, inciampò in uno sgabello che stava lì vicino e le disse che era una cosa urgente, doveva andare subito via.
Lei lì per lì ci rimase male, ma era forte, come le eroine della sua amata letteratura greca, e lo scusò, perché era fiera ed educata.
Ripensò a tutto questo mentre continuava ad incespicare tra la mota di quel sentiero impervio che conduceva a casa di lui. Quando vide una luce laggiù in fondo, e poi pian piano una casa enorme illuminata da tre fari posti ai piedi di quello che doveva essere un garage. Sentì il cuore esploderle dentro quel seno burroso ed umido, ma era forte e proseguì.
Fuori ancora pioveva, ma meno di prima, ed i suoi vestiti erano bagnati, che si sentiva ancora addosso l’odore di lui della sera precedente, quando si scoprirono insieme nudi e le loro labbra si consumarono fino a sanguinare da quanto si baciarono.
Continuò a chiamarlo, ma non rispondeva. Entrò in cucina e se lo trovò lì steso per terra con una siringa infilzata nel braccio destro ed una polverina bianca buttata lì per caso vicino alla sedia accanto al fuoco, che continuava imperterrito ad emanare calore.