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Gandhi non considerava la rinuncia il segno di una sconfitta. Ma ne riconosceva la forza. Come un gesto libero e responsabile. | Stefania Berti

Gandhi non considerava la rinuncia il segno di una sconfitta. Ma ne riconosceva la forza. Come un gesto libero e responsabile.

Mi sono imbattuta in questa riflessione qualche giorno fa, e forse per deformazione professionale mi sono domandata se si potesse declinare in un discorso che riguardi la scuola.

Le famiglie, non tutte ma molte sì, considerano l’insuccesso scolastico dei loro figli inammissibile, e in certa misura anche io, che cerco di insegnare ai miei il senso del dovere e una disciplina che ritengo sarà loro utile da adulti. Ma siccome finora i miei figli non hanno avuto grandi problemi scolastici la storia finisce lì, con la promessa di una punizione nel caso di un brutto voto o di un premio nel caso di un bel voto: come usava una volta insomma, in quel modo un po’ manicheo ma efficace con cui i nostri genitori hanno tirato su noi.

Invece nel mio lavoro vedo tante situazioni sfaccettate.

Vedo genitori che spendono tanti soldi per pagare lezioni private e interventi di recupero pomeridiano ai loro figli… che magari al mattino si distraggono molto in classe e perdono un terzo di quelle spiegazioni che basterebbe solo ascoltare un po’ di più, per migliorare.

Vedo genitori che insistono perché il proprio figlio scelga un liceo quando invece un altro tipo di scuola sarebbe più indicato; e vedo colleghi che vengono insultati dai genitori perché invece che il liceo hanno consigliato un professionale o un tecnico come percorso di studi superiori, come se avessero sbattuto in faccia una verità indicibile, o infranto un tabù.

Vedo genitori che incolpano gli insegnanti per il rendimento dei figli, e a volte lo fanno in modi coloriti, come quella mamma che su TikTok insultava qualche tempo fa le maestre del suo bimbo che aveva a suo dire troppi compiti a casa: si lamentano di quello che non sa spiegare, di quello noioso, di quello impreparato, di quello “che pretende troppo” (quante volte l’abbiamo detta anche noi, questa frase..), di quello “con le preferenze”, di quello che sa ma non sa insegnare, di quello che segue troppo il libro e di quello che non lo segue per nulla e costringe a prendere appunti, di quello fermo ai metodi didattici di trent’anni fa e di quello che siccome ne adotta di nuovissimi non si fa capire, di quello troppo giovane, quindi inesperto, e di quello troppo anziano, quindi senza più entusiasmo.

Potrei continuaresenza omettere che insegnanti così ci sono davvero, ma costituiscono una piccola parte del corpo docenti che in più di vent’anni di carriera ho conosciuto io.

Dal fallimento, se così si vuol definire, a volte si può anche imparare, e da lì ripartire: non dovremmo mai scordarcelo.

Quando vediamo il video di una performance sportiva che riesce perfettamente è bene ricordare che prima di quella performance ci sono state decine o centinaia di tentativi andati a vuoto; prove piene di errori, gesti ripetuti tante volte, incidenti. Se ogni atleta si arrendesse al primo sbaglio o desse la colpa a qualcun altro non esisterebbero gli assi dello sport, del ballo, o gli artisti circensi.
Solitamente invece ci viene più facile addossare un insuccesso a cause esterne, piuttosto che guardare dentro ai propri figli, e ammettere, serenamente, che le cose non riescono, o che si è scelta una scuola sbagliata. In una società che ci vuole tutti perfetti, eternamente giovani, perennemente al massimo, il fallimento non è contemplato: ne sono una testimonianza agghiacciante i tre casi di suicidio di studenti universitari avvenuti tra questo e lo scorso anno.

Non si può morire di università. Contro un merito che ci uccide», hanno scritto i ragazzi dell’Unione degli universitari di Palermo sullo striscione vicino al dipartimento di Economia, pochi giorni fa; e mi viene da pensare che parte del loro malessere sia imputabile alla pressione che questi ragazzi si sentono addosso, e che noi stessi genitori esercitiamo sui figli prima ancora che lo faccia il mondo esterno.

Adesso che il merito è diventato istituzionale, e riecheggia perfino nel nome del Ministero che si occupa di istruzione, le cose non potranno che peggiorare; e noi insegnanti ci occuperemo, come abbiamo sempre fatto, anche di tutti gli altri, quelli che al merito non arrivano, quelli fragili, quelli che rinunciano ma non per questo sono meno “meritevoli” dei nostri sforzi.