Dopo cinquant’anni sono molti gli italiani che ancora oggi ricordano lo straordinario Campionato del Mondo 1970, conosciuto anche come “Mexico ’70”, giocato nella terra messicana dal 31 maggio al 21 giugno. Per tanti sportivi costituisce un evento indimenticabile, passato agli annali storici per la presenza di grandi calciatori diventati vere e proprie icone del calcio mondiale.
Furono molti i protagonisti, anche nella nostra Nazionale, guidata dal commissario tecnico Ferruccio Valcareggi, tra i quali il grande portiere Enrico Albertosi, calciatore di Fiorentina, Cagliari e Milan, che vanta oltre cinquecento partite in serie A e che per ben trentaquattro volte ha indossato la maglia azzurra.
Nell’incontrarlo, Albertosi ci ripropone quella sorprendente avventura agonistica.
Quale atmosfera calcistica precedette le fasi preparatorie al Campionato del Mondo di Calcio 1970?
R. Buona. Venivamo dalla vittoria della Coppa d’Europa nel 1968 a Roma, per cui la squadra era già impostata. Bisognava fare qualche ritocco e fu fatto con i giocatori del Cagliari che avevano vinto il Campionato nel 1969-70. Andammo ai Mondiali con sei giocatori del Cagliari, fra i quali io; una cosa che a pensarla oggi sarebbe un’utopia. Iniziammo questi Mondiali giocando tutti e sei. Subito si infortunò Comunardo Niccolai e gli subentrò Roberto Rosato e gli altri arrivarono fino alla finale.
Dalle prime partite cosa lasciava presagire quel Campionato del Mondo?
R. Eravamo molto bloccati. Avevamo vinto con la Svezia 1-0 con un goal di Angelo Domenghini dovuto ad una papera del portiere svedese. Non avevamo giocato molto bene. La seconda partita la giocammo con l’Uruguay e probabilmente il pareggio andava bene ad entrambe le squadre, per cui ne uscì uno 0-0. Poi abbiamo rischiato molto con Israele e dovetti compiere un paio di parate importanti. La nostra preoccupazione era quella di passare il primo turno, perché erano parecchi anni che l’Italia non riusciva a superarlo. Ottenuto questo primo risultato ci siamo sbloccati e abbiamo giocato alla garibaldina, vincendo 4-1 con il Messico e poi 4-3 con la Germania. In finale purtroppo abbiamo trovato un Brasile stratosferico che non ci ha dato scampo.
Giornali e critici sportivi commentarono molto la staffetta Mazzola-Rivera. Qual è il suo giudizio inmerito?
R. In partenza il titolare era Rivera. Siamo arrivati in Messico e Rivera non stava bene, ebbe febbre e dissenteria e così non poté giocare le prime partite, ma nei quarti di finale si ristabilì completamente. Valcareggi incominciò allora a fare la staffetta tra Rivera e Mazzola. Rivera era completamente diverso da Mazzola. Aveva giocato benissimo nel secondo tempo, la squadra vinse e convinse, e Valcareggi andò avanti così con questa staffetta sia con il Messico, che con la Germania. L’ultima partita con il Brasile avevamo fatto già una sostituzione; allora il regolamento prevedeva soltanto due sostituzioni compreso il portiere. Alla fine del primo tempo eravamo 1-1. Avevamo dei giocatori con problemi fisici non gravissimi, ma che da un momento all’altro potevano sfociare in un infortunio e, quindi, sapevamo che avremmo potuto aver bisogno dell’ultima sostituzione. Rivera non era entrato per questo motivo. Poi nessuno ebbe infortuni e quando ormai mancavano pochi minuti alla fine, Valchereggi fece entrare Rivera, ma ormai le cose erano fatte.
Quali furono le partite più spettacolari disputate dalla nostra Nazionale?
R. Le partite più spettacolari furono quella col Messico che, nonostante si giocasse a 2500 metri sul livello del mare, la interpretammo bene, dando ai messicani una sonora lezione, e poi quella contro la Germania. Con la Germania fu una partita indimenticabile, non tanto per i novanta minuti regolamentari, quanto per i trenta minuti supplementari, durante i quali ci furono delle alternanze di goal incredibili. Una volta andati in svantaggio, tutti ci davano per morti e invece riuscimmo a rimontare e a vincere quella partita, secondo me, meritatamente. Ho sempre in mente quei centoventi minuti: quello che ho fatto, quello che non ho fatto e quello che potevo fare in più… . Sono partite che non si dimenticano. Dopo cinquant’anni è statagiudicata ancora la partita del secolo, per cui facemmo qualcosa di grande. Tutti dammo il massimo, in quella partita e nella ltre.
Cosa ricorda, invece, della partita finale che perdemmo 4 a 1 contro il Brasile? Fu un risultato giusto?
R. Secondo me non c’erano tre goal di differenza. Noi venivamo dalla partita contro la Germania con i tempi supplementari che ci avevano affaticato molto. Giocare dopo soli tre giorni la finale del Campionato del Mondo alle ore 12, probabilmente non ci dette modo di preparare bene la partita e di concentrarci adeguatamente.
Però una volta in campo ci pensammo più, stavamo giocando la finale del Campionato del Mondo e, quindi, cercammo di fare più di quello che potevamo. Infatti, nel primo tempo siamo rimasti in partita. Nel secondo tempo, dopo il loro vantaggio, subito hanno fatto il 3-1 e poi noi mollammo. Dopo che il Brasile fece il quarto goal, se ce ne avessero fatto un altro sarebbe stata la naturale conseguenza per una squadra che ormai aveva mollato e che era stanca. Venivamo da partite giocate a duemila-duemilacinquecento metri sul livello del mare, mentre il Brasile aveva giocato sempre al livello del mare. Un conto è giocare una partita a duemila metri dopo averne giocate quattro-cinque al livello del mare, perché non ne risenti. Ma una squadra che gioca cinque-sei partite a duemila-duemilacinquecento metri sul livello del mare, come accadde all’Italia, alla fine accumula troppa stanchezza.
Da cosa fu maggiormente colpito della tecnica di Pelé?
R. Dallo stacco di testa. Pelè non è molto alto, però aveva un tempo, uno stacco di testa da rimanere in sospensione come i giocatori di pallacanestro. Quanto al goal che mi fece in finale, io vedendo Burgnich che non arrivava a prendere quella palla, tra me dissi: non la prende nemmeno lui. E invece la prese e la chiuse forte sul primo palo e io, purtroppo, partii leggermente in ritardo, per la convinzione che non avendola presa Burgnich non l’avrebbe colpita nemmeno Pelè.
D. Albertosi, a cinquant’anni di distanza da quell’evento, quali sono le sue emozioni?
R. Le mie emozioni sono ancora intatte, come le provai cinquant’anni fa. Quando rivedo e ripenso a quella partita, ho in mente soprattutto quando eravamo a centro campo, con il suono degli inni nazionali e mi viene la pelle d’oca a questo pensiero.