Home FRANCO CORSETTI Il Giallo | Franco Corsetti

Il Giallo | Franco Corsetti

Il pendolare sa, è ovvio. La stessa strada, lo stesso panorama, variazioni sul lavoro più o meno minime: evviva la briosità! Ma, dopo tanti anda e rianda, qualcosa, di questo panorama piatto, si fissa nella memoria, lasciandoti un’impronta indelebile nel momento in cui risfogli il tuo passato. Nei tre anni di lavoro in supplenze annuali in montagna, avevo un entusiasmo che poco si legava con le strade che facevo. C’era slancio; la macchina; il mangianastri e quell’ora, o poco più, sembrava una passeggiata. Certo, d’inverno non era rilassante. La pioggia, di solito; poi, un po’ di nebbia con il freddo; qualche albero crollato sulla strada; poi, lei, la padrona di quei percorsi: la neve! Dico strade perché, per raggiungere Piteglio, S. Marcello e Cutigliano (mi è mancata Pavana, e avrei fatto poker!), avevo la scelta di sei percorsi. Da Marlia, la statale del Brennero; così come da Boveglio, giù a Bagni di Lucca. Poi, da Pescia, Vellano di qua; la Val di Forfora di là. Per continuare, da Montecatini Alto e, a destra, l’incrocio con Panicagliora. Infine, da Pistoia, e poi su.

Nessuna di queste, ovviamente, mi faceva evitare la neve. Al primo impatto, c’era la curiosità, che metteva in un angolino quell’elemento caratteristico dell’inverno assai raro da noi. Poi capii che tutto sembrava uguale, con i tratti che erano abbastanza simili a quelli della Piana. In fondo, dopo tre anni, anche gli aspetti più originali del paesaggio incontrato, pur alternando le strade, diventavano sempre meno attraenti. Però, c’era dei particolari che si erano fissati nella mente. Particolari climatici, quando le stagioni cambiavano così come i loro colori. Certo, l’inverno era quello meno seducente, e si salvava soltanto quando spuntavano i crochi, violacei, avanguardia del tempo migliore. Altrimenti, acqua, vento, freddo, ghiaccio, e qualche nevicata, non prevista alla partenza,e che ti coglieva, ahimè, impreparato.

Ricordo ancora, nell’anno 1976/77, a Piteglio, quando scelsi per salire la Val di Forfora. Il cielo prometteva e, prima della Macchi Antonini, mantenne quel preoccupante segnale di caduta di fiocchi. Mi trovavo ad un paio di chilometri dalla Macchia, e quelli cominciarono ad infittirsi tanto che stavano già attaccandosi sull’asfalto, e la situazione da preoccupante si faceva seria. Salivo con fatica e apprensione, lentamente, perché non mi fidavo di quell’elemento. Non mancò un po’ di paura, e tirai un sospirone di sollievo quando, scollinando, mi trovai nella pianura di quella località. Accadde, a quel punto, uno strano incontro; mentre io cercavo di rilassarmi, incrociai una macchina: era quella di Giulio Simonatti che, finito l’orario di lezione, tornava a casa. Tutto rimase sospeso per un attimo. I nostri occhi s’incrociarono. Le mie pupille – credo – fossero tornate normali. Non intravidi le sue ma, sicuramente, gli augurai con affetto che ce la facesse. Una tarda mattina che si risolse bene. Avevo scelto il percorso sbagliato; il ritorno, infatti, lo feci sulla statale del Brennero, e tutto era a posto, ma sempre con molta prudenza.

Passato febbraio, e qualche strappo di marzo, non ebbi più sorprese, e questa esperienza la fece da maestra per gli altri due anni. Proprio in questo cambiamento stagionale scoprii, dopo una curva (non so più quale: ce n’erano così tante ……), una macchi notevole di colore giallo, inaspettata perché, cambiando spesso percorso, non potevo aver fatto caso a questo evento. Era la ginestra, con quel suo colore così intenso, quasi abbagliante, che mi stupì profondamente. Fu così che, negli altri due anni, ebbi la certezza della sua tinta la paragonai a quella sventolata alle conclusioni di una gara. Poi, scesi in piano, e ovviamente non incontrai più quel cespuglio, né qualcosa di simile; ma, non lo dimentica, tanto che è entrato a far parte del mio bagaglio scolastico ma che, purtroppo, nonostante il suo richiamo, non sono stato capace di trovare il tempo di andarlo a trovare. Mi consolo leggendo la bellissima “Ginestra” del mio Leopardi. Finalmente, la cattedra definitiva, vicina, proprio quella che speravo, e sognavo, di avere.

Ora, la strada era sempre la stessa, quasi unica, e non potevo sbagliare. Dritta quasi come un fuso, mi lasciava, però, poco spazio per volare come avevo fatto con quel cespuglio in montagna. Ecco, la monotonia, qui, la faceva da padrona e, come pendolare, la macchina conosceva bene la strada, né sbagliò mai. Mancava un colore, almeno, per rompere un quadro fatto solo di asfalto a casa. Diversi vivai, ma niente che mi suscitasse qualche battito in più del mio cuore. Giorni uguali, come le settimane ed i mesi. C’era caldo, però, in fondo, anche troppo – per gli altri -; come c’era freddo – troppo, per me -, lassù in montagna. Niente, non riuscivo a trovare, con la coda dell’occhio, qualcosa che mi suggerisse la fine, e non il cambiamento di stagione. Qui, neve? Mah! Ghiaccio, un po’; acqua e sole, con la nebbia, frutto naturale di una pianura umida. Fino a quando, casualmente più attento, notai lo sviluppo dei toni di una pianta che ormai conoscevo bene, dalla nascita alla raccolta. All’inizio, quella, dopo poco piantata, restava troppo bassa per essere scorta.

Sì, c’erano file ordinate che la macchina accompagnava, e poi le sorpassava, ma niente di speciale. Però, da quando cominciarono a crescere quasi a vista d’occhio, la curiosità si fece più viva. Intanto, la scuola era finita, compresi gli esami di Terza, ma io continuavo a frequentare l’edificio, verso il quale il mio affetto cresceva senza sosta. Luglio. La pianta era completamente sviluppata nel fusto, e già si scorgevano, in cima, gli abbozzi delle future pannocchie. Ecco, infine, un punto di riferimento nella piattezza del territorio; era un segnale che cadenzava il mio calendario. Mentre le ginestre presagivano la fine delle lezioni, il granturco faceva intuire il nuovo anno, come se il colore giallo fosse il segnale principale che cadenzava il mio programma scolastico. Certo, il viaggio da e per Chiesina Uzzanese non aveva bisogno di tante divagazioni fantasiose rispetto a quello per la montagna, ma quel granturco entrò a far parte del mio almanacco scolastico. Così, mentre si sbiadiva il giallo carico della ginestra, si faceva strada quello meno vistoso del mais.

Erano solo pensieri piccoli piccoli, che duravano qualche manciata di secondi; subito dopo, riprendevano campo gli impegni di tutti i giorni. Le solite preoccupazioni per il lavoro; qualche progetto estemporaneo; un sogno ricorrente la cui realizzazione non lasciava spazio per niente altro. Ogni lavoro, brillante all’inizio e con piacevoli soddisfazioni, maggiori delle delusioni (non sempre, per onestà), si trasforma, poi, in un tran-tran al quale non ci si arrende, ma prende campo. Poi, la professione, e il suo esercizio, qualunque sia, non accetta divagazioni né critiche di ogni specie. E’ la passione, la volontà, il rispetto degli altri e di sé stesso che diventavano i cardini della vita. Lavori più intriganti; lavori più difficili e pesanti, ma tutti con lo stesso marchio di fabbrica: cuore, impegno, onestà. Sarà il tempo che dirà quanta fatica hai provato, e quante gratificazioni ti ha dato. Fai il bilancio, ad un certo punto, quando – come si dice – il respiro si fa più lungo, e i segni di stanchezza affiorano inaspettati e incontrollabili. Di sicuro, nonostante tutto, tanti bei ricordi si portano con noi, e le fatiche, i contrattempi, le amarezze, le delusioni e i dispiaceri, a poco a poco, sbiadiscono, e la polvere si depositerà su di loro.

Sarà un adagiarsi dolcemente sul pensiero del passato, che oggi ci sembra di aver vissuto piuttosto brillantemente, ripassando i tanti momenti felici che hai vissuto. Si sfogliano le memorie; si ricercano gli episodi salienti del nostro ieri; tanti volti e tanti luoghi, patrimonio imperdibile che riscalda anche in giornate grigie e fredde. E tra questi, ancora oggi, lontano da quegli anni lavorativi, si staglia, nelle giuste stagioni, quel colore giallo che ormai è uno dei padroni della mia vita passata. Poche ginestre, in realtà, rispetto ad ieri l’altro; e sempre meno campi di granturco. Il primo, simbolo che annunciava la fine; il secondo, l’inizio: piccole, modeste immagini che continuano, ancora oggi a commuovere il mio spirito, un tempo gagliardo ed energico, e che oggi si è fatto più debole e fragile, come dettano le stagioni di ogni essere umano, che trova nel passato la forza per affrontare il domani. E, a volte, anche un colore può racchiudere squarci di vita ben vissuta e, per questo, indimenticabili.