Qualche settimana fa un articolo del Washington Post ha definito l’estate 2020 la “summer of nothing”: l’estate del niente, in riferimento alle esperienze lavorative che i neodiplomati americani non faranno in attesa di iscriversi all’università o trovarsi un lavoro stabile dopo le vacanze. Verranno a mancare, sosteneva il giornalista, tutti quei lavoretti che consentivano di tirar su un po’ di soldi da spendere in viaggi o divertimenti senza chiederli alle famiglie, ma che servivano anche a irrobustire le spalle fuori dalla comfort zone della scuola, prima di entrare nel mondo degli adulti. Le ragioni sono ovviamente legate alla pandemia che purtroppo non ci siamo ancora lasciati alle spalle, anche se con l’arrivo del caldo qualche volta la tentazione di pensarlo viene a tutti: sia perché i protocolli di sicurezza sono così stringenti da scoraggiare i datori di lavoro dall’assumere stagionali di cui possono fare a meno, sia perché la crisi economica dovuta al Covid ha decretato la chiusura, talvolta definitiva, di molte attività, o ha costretto a ridurre il personale.
Potenziali camerieri, baristi, bagnini, baby e dog sitter, ragazze au pair, stagisti in azienda, rider, giardinieri per il vicinato: per loro niente lavoro estivo, in attesa di capire cosa fare da grandi. Impossibile non ripensare a quando toccava alla mia generazione, decidere come passare i tre mesi estivi che seguivano il diploma. C’erano i pochi fortunati con casa al mare, che partivano i primi di luglio e sparivano dai radar, e c’erano quelli che si inventavano un lavoro qualsiasi per mettere insieme la cifra per il viaggio della vita, che fosse l’Interrail o un’andata-ritorno Chiesina – Barcellona in Renault 5. Era più facile rimediare un’assunzione, all’epoca: c’erano molti meno vincoli. Alcuni negozi di abbigliamento della zona assumevano ragazze, purché maggiorenni, nei giorni di maggior affluenza, per piegare le maglie e rimettere a posto i vestiti che i clienti provavano; c’erano gelaterie che avevano bisogno di due mani in più per far fronte alla folla di avventori, agenzie che cercavano promoter e hostess nel fine settimana da mandare nei supermercati, locali che cercavano pierre per distribuire ingressi omaggio; insomma, se si avevano intraprendenza e un motorino le possibilità di guadagnare qualcosa non mancavano.
Mi chiedo se sia ancora così o se tutte queste opportunità non esistano più. I miei studenti felicemente neodiplomati non mi hanno parlato di lavoretti estivi: i più sono in attesa di partire per le vacanze, molti in agosto inizieranno a prepararsi per i test di ingresso universitari, e ora si godono il meritato riposo. Se qualcuno ha parlato di lavoro è perché aiuterà i genitori nell’azienda di famiglia, non perché abbia intenzione di cercarsene uno. In questo all’estero i giovani sono un po’ diversi; abituati all’idea di andarsene di casa a poco più di vent’anni, l’aiuto economico dei genitori appare loro come una forma di dipendenza di cui liberarsi il prima possibile. I ragazzi americani si cercano un lavoro già a sedici, per poi pagarsi a diciotto i costosi studi universitari; a venti solitamente vivono già per conto proprio.
L’ultimo sondaggio Eurostudent, uscito nel 2018, rivela che in Nord Europa, prima dei venticinque anni, non solo molti studenti sono già economicamente indipendenti, ma sono anche in grado di mantenere una famiglia, e quindi spesso già alle prese con pappe e pannolini; mentre da noi 75 studenti su 100 vivono ancora coi genitori, e se svolgono qualche lavoretto è solo per pagarsi i vizi. Ricordo molto bene l’uscita, criticatissima, della ministra Fornero che nel 2012 li invitava a non essere choosy, “schizzinosi”, omettendo tuttavia che nel nostro paese le occasioni di lavoro per i ragazzi non erano cosi numerose, allora. Figuriamoci oggi. Negli Stati Uniti le cose andavano diversamente, e deve essere straniante, oggi, sapere che tutto è cambiato. Molti ragazzi americani, dunque, in questa strana estate in cui si cerca di reagire alla paura, non lavoreranno, avranno le tasche vuote e si annoieranno un po’. Per uno di quei paradossi che la storia ogni tanto ci regala, quest’anno non saranno i nostri ragazzi a voler vivere all’americana; saranno gli americani a vivere come i nostri.