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Non è mai una buona idea abbattere le statue. Il caso Montanelli | Stefania Berti

Pochi giorni fa ho scritto un post sulla mia pagina Facebook a proposito del caso della statua di Indro Montanelli: lo riprendo oggi, perché il clamore suscitato dalla vicenda, anziché scemare, sembra salire di giorno in giorno.

In seguito all’uccisione di George Floyd per mano di un poliziotto di Minneapolis, in tutto il mondo a fine maggio sono sorti spontaneamente movimenti contro il razzismo. In Italia un’associazione che si chiama “I sentinelli di Milano” ha chiesto al sindaco Sala di rimuovere da un parco pubblico a lui dedicato la statua di Indro Montanelli: l’opera, commissionata allo scultore Vito Tongiani e inaugurata nel 2006 dal sindaco Albertini, ritrae il giornalista seduto su una pila di giornali a battere sui tasti di una macchina da scrivere, e negli anni è stata spesso criticata, perché a molti milanesi non piaceva.

Ma il motivo della richiesta della sua rimozione non è di ordine estetico. Quando Montanelli aveva 26 anni e appoggiava apertamente il regime fascista si arruolò come volontario per combattere in Etiopia: era il 1935 e Mussolini tentava l’impresa coloniale, per conquistare al paese il suo posto al sole e una posizione di rilievo sullo scacchiere europeo. Gli ufficiali consigliavano ai soldati di prendere una moglie del posto, che si occupasse di loro tra una battaglia e l’altra, lavasse la loro biancheria, li seguisse negli spostamenti.

Così fece Montanelli, attenendosi alla cosiddetta legge sul madamato: comprò per 500 lire una ragazza di 14 anni e la sposò. Anni dopo, in un’intervista, la definì “animalino docile”, e queste parole terribili, ancora oggi, pesano sulla sua figura di uomo come indimenticato macigno. Pochi giorni fa alcuni giovani a volto coperto hanno imbrattato la statua di vernice rossa, e scritto sul basamento, con uno spray, “razzista stupratore“.

La storia e la letteratura, come accade sempre, mi hanno fornito una chiave di lettura per interpretare l’intera vicenda.

Nella Roma repubblicana, e in quella imperiale con parossismi che giungevano alla cancellazione retroattiva del ricordo dei defunti, esisteva un provvedimento particolarmente severo che poteva essere messo in atto dal Senato: la damnatio memoriae, traducibile liberamente come “condanna all’oblio”. I nemici dello Stato che si erano macchiati di colpe indelebili o gli imperatori che avevano mal governato potevano essere cancellati dai ricordi collettivi tramite la raschiatura del loro nome dalle epigrafi, dai documenti ufficiali, perfino dalle monete, che, circolando da una regione all’altra dell’Impero, rappresentavano un formidabile strumento di propaganda. Il pericolo insito in tale provvedimento era già evidente agli stessi romani, che se ne servivano per togliere di mezzo tutti coloro che perseguivano fini diversi da quelli del Senato: un esempio celebre è quello di Marco Antonio, accusato di voler trasformare Roma in una monarchia orientale.

Nel romanzo “1984” di George Orwell, che rileggo oggi dopo 25 anni, si racconta che il protagonista, Winston Smith, lavora nell’ufficio addetto alla cancellazione del passato per il Partito; tutto ciò che minaccia la verità ufficiale che il Grande Fratello vuol diffondere, ad esempio riguardo alla guerra in corso tra i tre Superstati, deve essere sistematicamente distrutto, in modo che la memoria collettiva non ne conservi alcuna traccia. In questo modo la Storia viene perpetuamente riscritta.

Conoscere l’uomo dietro il giornalista: mi chiedo se sia davvero importante, o se invece non sarebbe meglio leggere il lavoro di Montanelli sotto un’altra prospettiva. La politica non l’ha amato molto, né durante il regime, che spesso criticava, né dopo, perché non si è mai macchiato di piaggeria nemmeno quando gli sarebbe convenuto: penso a Berlusconi, che lo voleva con sé dopo morto nella cappella di famiglia a Arcore, invece lo perse come direttore de Il Giornale. Potrebbe essere, il suo bastiancontrarismo, la carta giusta per comprenderne l’intera carriera: e per decidere che in fondo quella statua va lasciata lì al suo posto, perché non ricorda l’uomo, bensì l’intellettuale con la schiena dritta e la penna graffiante. L’opera, dopotutto, è dedicata al giornalista, mica all’uomo, che è stato un figlio dei suoi tempi non meno di altri. E giudicare i fatti storici con il metro di giudizio di un’epoca diversa è sempre un’operazione rischiosa, oltre che sbagliata. Forse, l’unica soluzione sarebbe non incontrare mai i propri modelli, quelli che abbiamo in mente quando pensiamo a una determinata professione. Potrebbero non corrispondere all’idea che ce ne siamo fatti, costringendoci a difenderne la memoria anche da posizioni ideologiche diverse.