Tempi brutti per i troppo buoni! Era la rèclame di un’azienda di biscotti che certificava, scherzosamente, la “fine” di quei prodotti, che venivano mangiati per la loro bontà. Altri anni, troppo lontani da oggi; e molto lenti, rivedendo anche per caso, o per forza, partite di calcio degli anni ’70-’80. Ma, si capisce, l’evolversi della società, il progresso, il futuro è domani, fanno parte della nostra storia, di quella dell’umanità. Che poi, tutto questo progresso sia la soluzione dei tempi bui, come venivano considerati gli anni intorno al Mille, se ne potrebbe discutere, ma so già che verrei tacciato di oscurantismo. Eppure, i miei orizzonti, quelli che ho visto già prima degli anni – anta-, mi sembravano più vivi, più chiari, più rosei – come la speranza – di quelli di oggi. Però, si sa che, quando ancora non si capiva, tutto era più bello, tutto ci faceva felici perché i nostri desideri, ciò che rappresentava il nostro futuro, era di una semplicità, di una modestia, di tanta sobrietà tanto che veder sbocciare una margherita ci sembrava un miracolo!
Parlo, ahimè, del secolo scorso, della vita paesana povera di grandi episodi ma tanto ricca di umanità, e anche, è vero, più di chiacchiere che di soldi. Poi, come logica, si cresceva, quasi tutti: una polmonite era fatale; la polia picchiava ancora, ma, con l’età, crescevano le ambizioni, spinte non più dalla radio bensì dalla magica TV. Incollati come manifesti, restavamo a bocca aperta nel veder parlare, al centro di una scatola, una persona, e non riuscivamo a capire per quale magìa ciò fosse possibile: come eravamo ingenui! Di conseguenza, si aprivano di più i nostri orizzonti. Quante volte ci fermiamo, oggi, a ripensare a quelli, e la commozione sale, sale. Eppure, ricordo bene che lo sguardo non poteva andare al di là delle colline che mi circondavano, anche perché non avevo le ali per volare. Avevo alucce, forse misurate sul mio fisico, e tanto in alto non potevo salire. Eppure, se non li vedevo, si aprivano, nella mia mente orizzonti talmente grandi tanto da provare un po’ di paura. Colpa, o merito?, del cinema e poi, come dicevo della TV che prima, in bianco e nero, e poi a colori, portava – quasi in casa – un mondo completamente sconosciuto, e meraviglioso.
Certo, alcuni libri già avevano tracciato una strada larga e dritta tanto da far apparire i nostri rioni ed un torrente un piccolo mondo antico! Ed era così che si pariva la lotta tra conoscere il “nuovo” mondo, o rimanere abbarbicato al “vecchio”. Nasceva così l’inarrestabile e continua lotta che ogni generazione umana ingaggia da quando siamo “partiti”. E le scelte non sono facile né indolori. Passa, il tempo. Prima, lentamente, troppo, perché c’è la smania – naturale – di conoscere, di sapere, di scoprire. Già le prime escursioni al mare dilatavano gli occhi: l’orizzonte, dov’è che finisce? Hanno scritto che, in certi giorni, in certe stagioni, cielo e mare si confondino, siano tutt’uno, indistinguibili. Così, a volte, ci sembrava, e rimanevamo stupiti di non riuscire a trovare punti di riferimento su cui ancorare l’infinito che ci appariva. Ma erano pochi momenti. L’invito di entrare nell’acqua, di schizzarci, di andare sotto – a occhi chiusi -, e per pochi attimi era troppo invitante, troppo piacevole. L’orizzonte? Rimaneva là. Una carta da giocare più tardi; un invito che avremmo raccolto col passare degli anni. E gli anni passavano, facendo finta, ad un certo punto, che scorressero come i granelli di sabbia nella clessidra, lentamente. Ci dicevamo: giunti tutti in fondo, poi la rigiriamo, e continueremo così, senza problemi, perché ancora erano tanti i sogni ed i desideri da realizzare. A volte, casualmente – per me – un’escursione in alto, sulle montagne. Giunti sulla vetta, un tirare forte il fiato, e subito eravamo circondati da orizzonti diversi l’uno dall’altro. Anzi, direi anche troppi tanto da sentirsi come naufraghi su di un’isoletta sperduta nel cielo, e la terra lontana, indistinta, irraggiungibile.
Un po’ di paura, è umano, e da questo punto di vista, lo riconosco, preferisco il mare. Intanto, tengo a bada lo sciabordìo della vastità marina con i piedi ben piantati sulla battigia; poi, cerco da subito quell’esilissimo rigo che divide l’alto dal basso, laggiù, lontanissimo, e che non so se sarei capace di raggiungere, di sentire dentro la volontà di navigare, come la volontà di volare su, sui monti. Le ali, intanto, si erano formate. Mi sentivo in grado di realizzare alcuni sogni, piccoli progetti di gente normale; a volte, semplici curiosità, come entrare in una piazza per approfondire, ricercare, una vecchia annotazione da tempo trascurata. E quale felicità scorgere, già da lontano, quel particolare che si era fissato nella mente! Che bello, riscoprire qualcosa dentro di te e che avevi messo da parte! Anche scendere, dall’alto, in Piazza del Campo a Siena che, pur se in pendenza e pur se chiusa, apre una finestrella dentro di te. Ecco, gli orizzonti si stanno ancora allargando. Le autostrade, gli aeroporti, i treni veloci: tutto un susseguirsi di novità che puoi toccare. Anche nella vita normale, sul lavoro, quei piccoli-grandi gradini che sali, ti rendono un po’ più sicuro e ti danno un briciolo di tranquillità perché si, volare è bello, ma poi devi ritornare a terra, e non bruscamente.
Scelte. E’ tempo di scelte. Da un lato, vorresti continuare perché è rimasta un po’ di sete in te; in altre, decidi di rimanere, di concentrarti di ciò che hai visto, e richiudi le ali. Sono decisioni difficili; si combatte fino ad un certo punto perché la voglia di conoscere è stata ben descritta dall’Ulisse dantesco: un male interno, a volte un bruciore. Pochissimo tempo fa sono andato a salutare un carissimo amico. Non ci vedevamo da anni, addirittura, anche se ci contattavamo col telefono. Si è parlato di noi, di quando ci frequentavamo spesso; di quanto siamo stati bene insieme; degli orizzonti che avevamo raggiunto. Improvvisamente, mi ha confidato un segreto di cui non avrei mai pensato quale ne fosse il contenuto: “E’ nato, in me, il mal d’Africa!”. Detto così, sono rimasto di stucco; poi, lui, mi ha spiegato il perché e come è cresciuto dentro. Io avevo una minima conoscenza di cosa si trattasse; letto sui libri, e visto al cinema, ma questi non rendono assolutamente l’idea di quanto lui fosse serio mentre me lo spiegava. Un orizzonte senza limiti, un infinito come la terra era prima che cercassimo di addomesticarla, di tenerla in cattività. Mi sono commosso, come credo lo fosse lui mentre me ne parlava. “…. Un lungo rettilineo, polveroso, costeggiato da boscaglia. Improvvisamente, una curva a sinistra e, dopo pochi metri, un altro mondo: il cuore del Continente Nero, e il mio che batteva violentemente …”. E quando sei colpito da questa “malattia”, come è successo anche a me, non guarisci più! Mi sono commesso perché anch’io, nel mio piccolo, ho dentro, da decenni, un Mal di Galles che, più passa il tempo, più diminuiscono le possibilità di rivederlo. Qui, sta proprio la nostra felicità-infelicità: riusciremo a rivedere quelle linee che si stagliano lontano? E confonderci con tutto ciò che ci circonda, respirando profondamente per cercare di raggiungere una pace interiore?
Tutti noi, a ben guardare, abbiamo quel tipo di “male” e, almeno per me, è finito il tempo di rincorrere nuove scoperte. Il mondo è talmente grande ma i mezzi a disposizione sono così veloci che 90 giorni sono troppi per farne un giro completo! Così, per non morire di noia, si sono aggiunti i pianeti del nostro sistema. Ad essere sincero, ciò che ci rimandano gli astronauti sparati lassù, mi dicono ben poco, forse perché l’orizzonte dei pianeti scoperti, e forse quelli da scoprire, li trovo tutti uguali, senza fine, freddi. Le mie ali non sono adatte a quel tipo di volo: troppo in alto, troppo lontano dai miei limitati panorami. D’altronde, la vista che ho da casa è, come detto, piuttosto chiusa; solo laggiù, verso sud-ovest, si apre un lembo della valle, accerchiata poi dai monti. Non è un granchè, lo so, lo capisco. Anche per questo la mia vena malinconica si è più sviluppata delle altre; ecco perché sento profondamente amico il grande Leopardi, o forse perché sono sempre stato fuori dal tempo, lontano dal presente. Rincorro il mare, quello vicino, quello di Viareggio. Non le estate con la nonna, e nemmeno quelle con i coetanei, prima che arrivasse la massa dei “barbari” da spiaggia. Non quel mare, in particolare. Una spiaggia quasi deserta, un cielo coperto di nuvole, di un giorno d’autunno o d’inverno, magari senza vento, sulla battigia. Fermarmi, con le mani in tasca, e cercare quella linea, quella riga, che segna il confine tra cielo e terra; fissarla, e sentire che dentro qualcosa si muove, e cresce, e sale. L’acqua, anch’essa immobile, prova – timidamente – ad accostarsi alla riva, a me. Un gabbiano, solitario, che gracida sgraziatamente, e io, solo, che vorrei volare per toccare quella linea, laggiù, e chissà, scomparire inseguendo i miei sogni.