Nel V sec. a.C. scoppiò un lungo conflitto in più fasi che oppose Sparta e Atene, e le rispettive coalizioni, per stabilire a chi spettasse l’egemonia sulla Grecia. L’opera che ne svela le dinamiche interne e le pieghe in cui la Storia nasconde i propri retroscena è “La guerra del Peloponneso” di Tucidide, scritta quando il corpo devastato e sofferente dell’Ellade era ancora caldo. Nel II libro vengono descritti i primi tre anni di guerra, e l’assedio alla rocca di Atene durante il quale la città viene colpita da un’epidemia che ne decima la popolazione, e in cui muoiono lo stesso Pericle e alcuni suoi familiari. Subito vengono individuati i responsabili, o meglio, i capri espiatori: serpeggia nelle strade la diceria che siano stati gli spartani ad avvelenare l’acqua potabile delle cisterne per mettere in ginocchio i cittadini assediati. Tucidide descrive minuziosamente i sintomi del male – probabilmente quelli di una febbre tifoidea aggravata dalle restrizioni imposte dalla guerra – e rileva come la diffusione del contagio sia irrefrenabile, a causa dei comportamenti della popolazione dettati dal panico: affluiscono in massa i contadini dalle campagne, e nei primi tempi, nonostante i richiami delle autorità cittadine, i rapporti reciproci si intensificano, nel tentativo di prestare cure ai parenti e agli amici ammalati. Solo in seguito, quando il morbo ha già decimato gli ateniesi e le strade sono piene di cadaveri che nessuno vuol seppellire, i malati vengono gettati nelle strade o lasciati a morire da soli nelle case. Gli argini della legalità e della morale vengono travolti: gli sciacalli entrano nelle case degli appestati per rubare, chi ha denaro lo sperpera in orge e baccanali nella convinzione di non avere più un futuro davanti, il godimento immediato diventa l’unico obiettivo perseguito da folle di persone che si ritrovano uguali nella morte. Cadono le barriere tra ricchi e poveri, aristocratici e plebei, politici e contadini: il morbo colpisce chiunquecolpisce , annulla nella morte le distinzioni sociali. E nel frattempo inizia il declino inesorabile dell’Attica, la carestia dilaga, la popolazione cala vertiginosamente: il mondo antico cambia volto per sempre. Nel II sec. d.C. l’impero romano deve fronteggiare, lungo i confini orientali, popolazioni di origine iranica e germanica, rispettivamente i Parti e i Marcomanni, che premono per varcare il limes, chiedendo protezione e terre da coltivare. Sono in fuga verso ovest, alle spalle popolazioni che scendono da nord e li spingono verso il Danubio. Fino a quel momento la politica romana è stata improntata alla chiusura dei confini e alla regolamentazione rigida dei flussi immigratori; in un mondo densamente popolato, con un’economia solida e segnali di declino che tardano ad essere decifrati, le frontiere costituiscono un baluardo invalicabile contro la barbarie. Nell’impero entrano, di fatto, solo i mercanti, e solo se muniti di speciali lasciapassare.