Quanto tempo è passato da quando, per la prima volta, ricordi vagamente quell’improvviso accendersi della guance, quei piccoli pomelli che s’illuminavano di un diffuso, improvviso, sfumato rosa, lasciandoti con la bocca spalancata, così come gli occhi. Tante primavere fa, diventate poi tardi autunni, che pesano sulle spalle un po’ curve nonostante l’impegno di non mollare, non cedere alle lusinghe di un inverno imprevedibile, e perciò incontrollabile. C’erano, allora, i calzoncini corti ed in sandalini; era d’estate, sempre, perché tutte le memorie rimaste hanno quel dolce, un po’ acido, delle ciliegie, quelle rosse e quelle nere, il messaggio di caldo, di sole, di felicità riempiva il piccolo cuore. Ti meravigliavi, non capivi perché (ed era meglio), ma se esisteva una felicità materiale, quello era il messaggio giusto, che arrivava subito dentro, e la gola era soddisfatta. Erano i tempi che lo stupore accompagnava i primi, incerti passi nella vita appena sbocciata, quando non esistevano, nel nostro orizzonte, dolori e delusioni, quelli forti, quelli ai quali non ti abituirai mai. Le farfalle! La sorpresa del loro volo irregolare, e il piccolo scatto per catturarle (l’antica vispa Teresa: chi se la ricorda?), e loro sfuggivano ai nostri goffi tentativi, lasciandoci un po’ corrucciati. Ma ti guardavi intorno, e ne scoprivi altre, e le più piccole anche multi-colori. Le lucertole! Un po’ belle e un po’ brutte. C’era qualcosa di atavico, in noi, che le faceva somigliare alle serpi: quelle sì che ti facevano tremolare le gambe, indeciso se restare o scappare via, lontano, scomparire materialmente perché erano esseri che sentivi indomesticabili. Più abbordabili, allora, le lucertole, ma dovevi restare immobile. Quelle, su di un sasso, sotto il sole, che “ricaricavano” le pile e rimanevi incerto se allungare la mano per “chiapparle” o invece continuare a fissarle senza un vero perché. Erano gli inizi delle scoperte della vita, in un piccolo mondo che sembrava aprisse le braccia per accoglierti, e che la gioia ne fosse il suo regno. Eri al centro di quel modestissimo universo, di cui cominciavi a prenderne la confidenza sotto la guida dei genitori, degli amici più grandi, delle modeste, semplici esperienze personali che si depositavano sul leggerissimo zainetto (allora), che ti accompagnerà verso un futuro inimmaginabile, e quindi inatteso. Quel leggero rossore, quel rosa così pallido come sono le albe dopo una notte di vento, si riaccenderà davanti ad una sorpresa inaspettata. La presentazione agli zii lontani: “Ecco qua il bimbo!”, dicevano di noi, e subito abbassavamo gli occhi un po’ impauriti di fronte a sconosciuti, che rispondevano : “Che bel bimbo! Cosa mi dici?”. Parlare? Con degli sconosciuti? Scena muta, e il rossore delle gote aumentava! Com’è simpatico!”, ma noi si friggeva dentro perché non sapevamo cosa fare, cosa dire. Erano emozioni, quelle vere, le prime, perché tutto il tuo io era genuino, semplice, di un verde così intenso come quello dell’erba in primavera che, dopo una leggera pioggia marzolina, si asciugava al sole lanciando piccoli brillanti tutto intorno. Crescendo, perdevamo quella tenerezza che ci aveva accompagnato fino ad allora. Cambiavamo atteggiamento: a volte più deciso; molte altre, più incerto, insicuro: erano le prime note della gioventù, non ancora ben accordate, ma la cui melodia cresceva dentro, e iniziava, tra alti e bassi, a creare quella colonna sonora che ti accompagnerà per sempre. Poi, le emozioni diminuivano, ma si facevano più forti, entravano in profondità, scoprivano praterie dentro di noi sconosciute. Era allora che si rivelava l’altro mondo, e si presentava improvvisamente; prima, come un illustro sconosciuto (fino ad ieri); ora, come quando un uccellino si alza in volo: uno sfarfallìo di ali, un tremolìo del cuore che, senza eguali, batteva forte forte, e saliva in gola tanto da non poter deglutire perché grossa era diventata quell’emozione. E, contro ogni tua volontà, le guance arrossivano violentemente, e tutto si bloccava: la lingua, la mente, il corpo. Ma che succedeva? Qual era il mistero di questo incontro improvviso? Un paio di treccine, due occhi profondamente neri, qualcosa di estraneo al tuo corpo ti si parava davanti; e che, per di più, anche le sue guance arrossivano, stranamente, anche loro incontrollabili. Suonava una campana? Se era così, era quella che allietava la domenica mattina gran parte del mondo per comunicare che era festa, finalmente, dopo una settimana di duro lavoro. Ma noi non avevamo lavorato! Eppure, quello scampanellìo inondava tutto il nostro corpo, tremavano le gambe; il rosso incendiava il volto; la bocca si rifiutava – se era chiusa – di parlare, peggio se era aperta: non usciva niente, e rimanevi come un allocco di fronte ad un essere semisconosciuto che, in pochi attimi, ti aveva sconvolto. Cos’era? Ancora non so, ma quanti mi manca! Un’emozione irripetibile per quell’età, così genuina, così profonda, così giovane! Capirai poi che quelle farfalle che rincorrevi pochi anni prima, erano migrate nel tuo stomaco, ed erano loro – ora – che rincorrevano te. Scorre la vita, ma diminuiscono le sorprese, i batticuore, la curiosità di scoprire, e farti sorprendere, che sono cresciuti insieme a te, e si ripiegano come fanno i salici che, dopo essere diventati adulti, sembra vogliano ritornare alle loro radici, alla gioventù. Essere grandi, non è un bel risultato; controlli la tua esistenza, gestisci la vita col cervello, ciò che ti aspetti sa poco di romantico, di appassionato.