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L’impero Romano cadde per i pochi nati e i troppi stranieri? | Stefania Berti

L’impero Romano? Cadde per i pochi nati e i troppi stranieri. Oggi come allora?

Nel 2016 fu tradotto in italiano un saggio scritto due anni prima dallo storico francese Michel De Jaeghere: il titolo era Gli ultimi giorni dell’Impero romano, e la tesi dell’autore era che l’impero fosse caduto, nel V secolo d.C., a causa di un vertiginoso calo demografico congiunto all’incapacità di gestire un’immigrazione incontrollata proveniente da est. Questo libro si inseriva in un filone di studi che godeva allora di una certa fortuna, visto che mai come in quegli anni il tema dell’immigrazione e delle politiche di inclusione era percepito come centrale nel dibattito politico (e nelle discussioni sui social media). L’occasione era troppo ghiotta per non strumentalizzare un testo incredibilmente ricco e sfaccettato, di cui fu facile decontestualizzare alcune parti. Basta una semplice ricerca in rete per rendersene conto: Rino Camilleri, firma de “Il Giornale”, in un articolo del 30 settembre 2016 sostenne un improbabile paragone tra la situazione di allora e quella di oggi (“Tutto questo ci ricorda qualcosa”, scrive nelle prime righe), ma omise una serie di fatti storici di primaria importanza. Per fortuna c’è Ammiano Marcellino, lo storico che visse nel IV sec. d.C. e raccontò quelle vicende nei Rerum gestarum libri; e per fortuna c’è Alessandro Barbero, docente universitario di Storia Medievale, che fa luce su un’epoca affascinante e complessa, difficilmente liquidabile nelle poche righe di un articolo. Barbero, nel libro Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, edito nel 2006, già nel titolo fa una distinzione tecnica ineccepibile (che oggi molti dimenticano di fare) sulle diverse categorie di persone che arrivavano dall’oriente e premevano lungo il limes, il confine imperiale in parte fortificato e difeso dagli stationarios milites, in parte protetto da fiumi o altri ostacoli naturali impossibili da attraversare. Ricorda poi che il massacro di Adrianopoli del 378 d.C., in cui molti storici ravvisano l’inizio della fine dell’impero, fu preceduto da fatti che, se non giustificano lo spargimento di sangue, lo rendono almeno più comprensibile. Due anni prima le autorità militari stanziate nella provincia della Tracia, all’estremità meridionale della penisola balcanica, si erano trovate a fronteggiare un’ondata migratoria senza precedenti di Goti guidati dal re Fritigerno. Erano uomini, donne, e bambini che venivano da est, terrorizzati dall’avanzata degli Unni che calavano dalla Siberia. Chiedevano terra da coltivare, e quella protezione che solo gli istituti giuridici e militari romani potevano offrire. Non erano richieste immotivate: nel II sec. d.C. i territori orientali dell’impero si erano spopolati, a causa delle numerose campagne militari condotte dagli imperatori dell’epoca e di una devastante epidemia, probabilmente di vaiolo, conosciuta come peste antonina, che uccise anche l’imperatore Marco Aurelio. Si calcola che morirono tra i 5 e i 30 milioni di persone, soprattutto contadini e soldati.Gli imperatori iniziarono a modificare le loro politiche immigratorie, fino ad allora rigidissime, e un numero crescente di barbari fu ammesso nell’impero. I romani, di quei barbari, avevano bisogno per coltivare la terra e combattere nell’esercito. Per alcuni decenni le cose andarono bene: l’inclusione funzionava perché arrecava vantaggi a tutti gli attori coinvolti. Le cose peggiorarono quando gli ufficiali addetti ai controlli dei flussi migratori iniziarono a commettere soprusi e angherie a danno dei Goti. Vendevano gli approvvigionamenti al mercato nero, riducendoli alla fame, e li arruolavano spostandoli a centinaia di chilometri dalle famiglie. Adrianopoli non fu altro che l’esplosione violenta di una rabbia tenuta a freno per anni, e vorrebbe esser fatta passare oggi come il segno dell’inequivocabile malvagità di quegli antichi migranti, nonché come la prova del fallimento delle politiche di inclusione. Ma la Storia, quando è raccontata con onestà, difficilmente va a braccetto con la propaganda; anzi, spesso diventa proprio l’arma più efficace per combatterla, e per disinnescare il pregiudizio.