In una sua bella poesia, Marino Moretti ricorda il tempo della scuola: “Ma sì, prendiamo la cartella scura, / il calamaio in forma di barchetta, / i pennini, la gomma, la cannetta, / la storia sacra e il libro di lettura”. A parte i libri, tutto il resto è sparito, compresa la cartella che era di fibra e si metteva a tracolla sopra il grembiale nero. Oggi, Moretti troverebbe la rima e il metro per cantare il sostituto della cartella, che, come tutti sappiamo, è lo zainetto? A tutti i poeti manca un verso, forse anche a Marino, ma è inutile che si affanni a cercarlo, non ci sono scuse: i ragazzi lo vogliono a ogni costo, lo zainetto, che ci sia o non ci sia la rima, e allora bisogna contentarli. Del resto non è una cosa nuova: è da un po’ di tempo che hanno abbandonato la vecchia cartella e circolano con le spalle curve sotto il peso del loro carico. E allora perché parlarne proprio oggi? Per il fatto che gli scolari sono diventati molto esigenti: lo vogliono firmato, il loro zainetto, con la griffe, insomma, dato che così ce l’hanno Mario e Silvano, Caterina e Giulia, compagni di classe.
Oggi la firma è di moda. In nessun tempo si sono apposte tante firme come si fa oggi. Al primo posto mettiamoci i ricchi e famosi, che rilasciano autografi a tutto spiano, e poi i meno famosi e meno ricchi, che siamo noi, costretti dal progresso a firmare montagne di carta, come, per esempio, i contratti del gas, del telefono, e così via, tra l’altro tutti scritti con caratteri quasi invisibili, per cui non si riesce a leggere neppure con la lente d’ingrandimento. Ma non si possono passare sotto silenzio coloro, e sono in grande numero, che hanno firmato e firmano cambiali, titoli che hanno determinato il successo finanziario dei firmatari, anche se qualche volta sono finite sulla scrivania dell’ufficiale giudiziario, perché la cambiale è quel titolo col quale, / a una certa scadenza il debitore / s’ impegna a non pagare un capitale. E c’è anche un’altra categoria obbligata a firmare, e sono quei soldati che intendevano rimanere sotto le armi al termine della ferma, e per questa ragione si sono buscati il nome di firmaioli. Come dobbiamo chiamarli quegli artisti (metti pittori, e anche famosi, ma i nomi non si svelano) che la tela la fanno dipingere da altri e loro ci mettono la firma e basta?
Ma ecco il rovescio della medaglia, ed è uno che non ha mai firmato una sua opera, e del resto sarebbe stato inutile perché quello che ha fatto lo poteva fare soltanto lui e nessun altro. Parlo di Michelangelo. A dire il vero, una, sì, l’ha firmata, una sola, e questo è un evento eccezionale e bisogna proprio raccontarlo. Nella prima cappella a destra della Basilica di San Pietro, c’è la sua Pietà, che scolpì quando era giovanissimo, 23-24 anni. È un miracolo che un sasso da principio senza forma nessuna si sia mai ridotto a quella perfezione, scrive il Vasari, e aggiunge che nella cintola che cinge il petto della Madonna, più tardi lo scultore incise il proprio nome. È giusto domandarci: perché più tardi, quando ci sono artisti che firmano i loro lavori ancora prima di cominciarli? E perché firmò una sua opera, facendo ciò che non aveva mai fatto? Un giorno (pare che fosse durante il giubileo dell’anno 1500) entrò in San Pietro, dove c’erano molti visitatori venuti dalla Lombardia, e sentì dire che la Pietà – la sua, di lui, di Michelangelo Buonarroti, nato a Caprese il 6 marzo 1475 – era stata scolpita dal Gobbo di Milano, soprannome dello scultore Cristoforo Solari. Questa attribuzione gli piacque poco e allora, per evitare futuri equivoci, una notte si serrò in chiesa con un lumicino, martello e scalpello, e sulla cintola incise il suo nome e la sua patria: Michael Angelus Bonarotus florentinus faciebat.
Questo scritto lo chiuderei volentieri con Michelangelo, aggiungendo che l’opera gli venne pagata 450 ducati d’oro. Quale conclusione migliore? Sennonché, ci sono altri tre personaggi che aspettano il loro turno per essere rammentati, anche loro (e a modo loro) come firmatari. Il primo si chiama Zorro e ha uno strano modo di firmare. Come penna usa la spada e come foglio si serve della camicia dei prepotenti del paese. Lo conoscono tutti questo personaggio e tutti sanno che si firma soltanto con una Z, quanto basta però per far morire di paura il sergente Garcia e tutta la guarnigione, sempre impegnata a catturarlo ma senza successo. Il secondo è l’eroe dei due mondi sul conto del quale un giornale dà questa notizia: in occasione del suo terzo matrimonio (aveva 73 anni e la sposa 34), davanti al sindaco firmò l’atto di matrimonio col suo nome e cognome, Giuseppe Garibaldi, e alla voce professione scrisse agricoltore.
Il terzo è un personaggio potente la cui autorità non la può superare nessuno, e quindi devo misurare bene le parole quando parlo di lui. Si tratta, come si è qualificato Garibaldi, di un contadino che zappava il suo campo in un paese lontano da Bisanzio, e il suo nome era Giustino. E sarebbe lui, uno che zappa e vanga (con tutto il rispetto), il personaggio tanto potente? Un po’ di pazienza, per favore. Come d’Artagnan, che lasciò la sua casa e il babbo e la mamma e si mise in sella per andare a Parigi in cerca di fortuna, così Giustino contadino lasciò il suo campicello per raggiungere Bisanzio, fidando nella buona sorte, ma nessuno avrebbe scommesso su di lui un centesimo bucato. Male, molto male, perché fece una carriera che a raccontarla nessuno ci crede. Leggete, per favore. Appena arrivato a Bisanzio, si arruolò nell’esercito, in poco tempo diventò guardia del corpo dell’imperatore Leone I°, poi, sotto il suo successore, Anastasio, riuscì a guadagnarsi il grado di comandante delle guardie di palazzo. Aveva salito un altro gradino della scala della sua incredibile carriera, ma quando il suddetto imperatore morì, con un solo balzo salì tutti gli altri gradini che mancavano per arrivare in cima. E dove? Ecco, con tutta deferenza, devo annunciarvi che fu Giustino a succedergli sul trono dell’impero bizantino. Ora avete capito perché ho detto che era potente, ma sentitene un’altra: devo rivelare una cosa che non so come la prenderà l’imperatore. Il rischio è grosso ma ve la dico lo stesso, subito e in sei parole: non sapeva né leggere né scrivere. Una cosa del genere non s’era mai sentita: un imperatore analfabeta, ma si scherza? Come faceva a firmare tutte le carte che un sovrano ha da firmare? Voi capite, si tratta di leggi, decreti, ordinanze, regolamenti, proclami, bandi, statuti, e mettiamoci pure qualche centinaio di ordini di condanna a morte. Ora ve lo spiego. Tutti i fogli che gli mettevano sull’imperiale tavolo li firmava di suo pugno, ma sentite con quale marchingegno escogitato da un suo ministro. Su un pezzo di legno sottile ci fece incidere da una parte all’altra i segni corrispondenti a quattro lettere (quel ministro si può considerare l’inventore del normografo) e poi utilizzato in questa maniera: lo appoggiavano in fondo al foglio da firmare, un funzionario intingeva la penna nell’inchiostro, la metteva in mano all’imperatore, il quale, con la diligenza di un bravo scolaro, e magari con qualcuno che gli reggeva la mano, la faceva scorrere lungo i solchi che erano stati incisi nel legno, e il gioco è fatto. Al termine dell’operazione, sul foglio si poteva leggere questa parola: LEGI, ossia ho letto, come dire: io, Giustino imperatore, non ho letto nulla, perché non so leggere né scrivere, però approvo tutto quello che qui sopra è stato scritto.