Home STEFANIA BERTI E se le cavie fossimo noi? | Stefania Berti

E se le cavie fossimo noi? | Stefania Berti

Con l’espressione Guinea pigs si intende la comune cavia da laboratorio, ovvero il porcellino d’India usato fino a pochi anni fa per condurre esperimenti medici o test farmacologici, e oggi sostituito da ratti e topolini. Mi sono imbattuta in questa espressione leggendo un articolo (questo il link: https://www.mail-archive.com/leninist-international@lists.wwpublish.com/msg01529.html) che parlava del contenzioso di Kano, il caso giudiziario che ha ispirato il romanzo di John Le Carrè Il giardiniere tenace e l’omonimo film di Fernando Meirelles.

Nel 1996 in Nigeria, nel distretto di Kano, scoppiò un’epidemia di meningite cerebro-spinale (CSM), che uccise più di dodicimila persone e ne colpì dieci volte tante. L’emergenza fu tale che intervennero nel paese numerose organizzazioni no profit come Medici senza Frontiere, che aveva sul posto un ospedale dove la popolazione veniva curata gratuitamente con il protocollo antibiotico tradizionale, considerato il più efficace per quel tipo di infezione batterica. Alcune aziende farmaceutiche, come l’americana Pfizer, misero a disposizione personale medico, attrezzature e cure sanitarie per far fronte all’epidemia, accordandosi con le autorità nigeriane perché approvassero la sperimentazione sul posto di un nuovo farmaco, il Trovan.

Quello che all’epoca non si sapeva era che l’FDA, il dipartimento americano che controlla i prodotti alimentari e farmaceutici, non aveva ancora approvato il Trovan, il cui principio attivo, la Trovafloxacina, causava effetti collaterali gravi di tipo epatico: tanto che la Pfizer lo mise sul mercato, inizialmente, solo per i maggiorenni, e lo ritirò definitivamente nel 1998. I ricercatori della Pfizer, senza mai entrare in contatto col personale medico locale o coi dottori di Medici senza Frontiere, isolarono uno spazio nell’ospedale di Kano e somministrarono il Trovan a un centinaio di pazienti ammalati di meningite; morirono 11 persone, tra cui diversi minori, e la sperimentazione, nell’ottica aziendale, fu presentata come un successo. Non si tenne conto delle decine di persone colpite da infermità permanenti – cecità, paralisi, disabilità psichiche – e segnate a vita dagli effetti collaterali del farmaco. Del resto, quanto vale la vita di 11 malati in un paese del Terzo Mondo, a fronte di un’epidemia che ne colpisce migliaia, e di interessi economici da milioni di dollari?

Completati i test, i ricercatori se ne andarono dal paese, mentre l’epidemia era ancora in corso e la situazione era “un inferno”: così fu definita da un medico di Medici senza Frontiere, e questa frase fu usata nel filone americano del processo che si aprì contro la Pfizer nel 2003, a seguito di un’inchiesta del Washington Post che tre anni prima aveva svelato la vicenda. La difesa insistette sul carattere umanitario della sperimentazione, che doveva far fronte all’emergenza; ma i pazienti non avevano espresso alcun consenso informato, non erano al corrente dei rischi che presentava il nuovo farmaco e soprattutto non sapevano dell’esistenza di cure già collaudate che venivano somministrate poco lontano da loro. Non parlavano inglese, e se anche a voce ricevevano informazioni, non erano in grado di capirle, perché non vi erano interpreti che li aiutassero. Erano, semplicemente, dei Guinea pigs sacrificati sull’altare di un progresso che non avrebbe mai migliorato la loro vita, ma quella di persone che vivevano a migliaia di chilometri da lì. Persone per cui le epidemie che scoppiano nei paesi sottosviluppati rappresentano una vera manna: sono infatti dei grandiosi laboratori senza regole certe e senza controlli efficaci, in cui effettuare ricerche e esperimenti nell’assoluto silenzio dei media occidentali, che spesso si accorgono solo dopo anni di quanto succede laggiù, e non sempre hanno i mezzi e la volontà di denunciarlo.

Negli anni seguenti, le campagne di vaccinazione di massa in Nigeria furono insuccessi; la gente non si fidava più né del governo, né dei medici, né delle medicine. La vicenda giudiziaria non è ancora giunta a una conclusione; 4 delle famiglie delle vittime e il governo nigeriano hanno ottenuto un risarcimento, e nel 2011 la Pfizer ha stanziato 30 milioni di dollari per la costruzione di un ospedale nel distretto di Kano. Restano quegli 11 nomi, o meglio, quelle undici sigle: una è quella della paziente numero 0069 nel test numero 6587, la ragazzina di 10 anni il cui caso diede l’avvio al reportage del Washington Post. Non conoscerne il nome, ma soltanto il numero con cui veniva identificata, forse ci metterà in pace con la nostra coscienza, il giorno in cui dovremo assumere un farmaco che ci farà star meglio e curerà le nostre malattie.