Home FRANCO CORSETTI La terra | Franco Corsetti

La terra | Franco Corsetti

Tutto ha inizio da un tratto di strada bianca lungo circa 150 metri. E non, per meglio specificare, del globo, del pianeta. Voglio parlare proprio della terra, dello strato superficiale della crosta terrestre, del suolo. Da quando il nostro antenato, da raccoglitore-cacciatore si trasformò in agricoltore, la terra – da allora – è stata la prima fonte di vita. Lo stesso S. Francesco, nel Cantico delle Creature, loda la “sora nostra matre terra” per i frutti, i fiori, le erbe. Senza scomodare i Santi, tanti secoli sono passati, prima di Lui, e dopo: la terra era al centro della vita dell’uomo e del pianeta. E’ con l’industrializzazione del XVIII secolo, partita dall’Inghilterra grazie alle sue miniere di carbone, che ebbe inizio il declino; dopo un paio di secoli, l’agricoltore è stato trasformato in un uomo tecnologico. Quando parlo di tecnologia, ed io sono l’ultimo che dovrei farlo, intendo tutti i macchinari utilizzati, e sempre in via di aggiornamento, per alleviare la fatica dell’uomo, trasformandone addirittura il suo abbigliamento.

Ricordo, a proposito, il vecchio detto: “Contadino, scarpe grosse e cervello fino” ormai sorpassato dato che oggi lo vede protagonista nel lavoro della terra quasi in camice bianco. E’ diventato il computer quello che ara, semina e raccoglie i prodotti primari della nostra esistenza. Questa trasformazione è recentissima, in realtà, ed ha, contrappasso, l’abbandono di quel territorio che non può essere utilizzato dalle macchine per la sua conformazione fisica, e per la sua produzione, che non coprirebbe le spese. Insomma, prima si vangava tutto e di più; ora, se la macchina può sostituire quella, bene: se non ce la fa, nasce l’abbandono. Sembra, questo problema, fuori da qualsiasi discussione d’agronomia, eccetto da parte di coloro che lavorare a mano ce l’hanno ancora nel sangue: pochi? pochissimi? Il boom economico degli anni 50/60 ha portato al lento, inesorabile declino del mondo contadino. Certo, tanti macchinari hanno coperto la fuga dai campi, ma quelli non hanno un’anima, e non riusciranno a ricreare una nuova civiltà per gli anni 2000 e successivi. Non voglio credere che ce la faranno! Ecco ciò che rappresenta il significato che io do alla terra: una civiltà. E non interessa scavare nei secoli scorsi, parlo proprio di me stesso, e di cosa sono stati gli antenati della mia famiglia. Quando si parla di una cultura, si dovrebbe tener presente il reticolo delle attività che a quella era legato. Ripenso a quel piccolo mondo chiuso, diffidente della città, per cui i contatti tra loro non sempre sono stati pacifici e costruttivi. Un’immagine ben chiara di questa realtà ci è stata offerta da Ermanno Olmi con il suo “L’albero degli zoccoli”: crudo, realistico, amaro, con pochissime parole: solo le essenziali. Come è amara la vita del colono al nord, nel centro, al sud, isole comprese. Era ancora il tempo dei barocci, che i nostri nipoti non conoscono. Il cavallo era di famiglia (già un lusso) e, con i buoi, aravano il terreno. Poi, dopo la semina, alzavano gli occhi al cielo perché qualcuno li proteggesse; e la vita era lenta: oggi, lo è solo nel traffico dell’ora di punta. Un mondo chiuso, duro, ripetitivo e con pochissime feste. E terra da coltivare, da curare per l’erba, da far scolare, da rinforzare: sudare, solo sudare. Un attaccamento viscerale, ancestrale, i cui orizzonti erano molto limitati, angusti, e con la famiglia come pietra angolare dell’esistenza. Tutto ruotava intorno a lei, alla terra, da subito. Scelte? Verranno fatte poi; a volte, autonomamente; in altre, imposte e così la vecchia casa contadina, la colonica, sarà trasformata in villa o in agriturismo. Prima, il suo lato oscuro era il gabinetto: una stanzina, con un modesto quadrato di luce; una buca: giornali e riviste. Senza fognature, faceva concime per i campi. Ora, oggi, ci sembra assurdo, ma era proprio così. Una cucina, grande, così come il camino, perché lì, la famiglia si radunava, ed era numerosa. Nomi classici di quei tempi: Sesto, Settimo, Decimo, per concludere con un “Finimola”, che spiega tutto.

La scuola? Prima della II.a Guerra Mondiale, era già tanto se imparavi a leggere, scrivere e far di conti. La 3.a Elementare era un traguardo, e non dobbiamo sorprenderci se gli alunni di allora hanno fatto progredire la Nazione. Gli olivi “scappavano” in alto: 5 metri e più, con le scale e le canne, e tutti i rischi del caso. Sotto, c’era da seminare, e ogni angolo del terreno era destinato a qualche coltura. C’era la mezzadria, un contratto tra proprietario e contadino, che si associavano per la divisione dei prodotti e degli utili. Immaginiamo se l’annata fosse stata cattiva. Dire che fosse difficile, la vita dell’agricoltura, è usare un termine troppo semplice e dolce. Eppure, sono loro che ci hanno “portato” fino alla fine del secolo scorso. Sono loro, con tanti limiti di comprensione, di adattamento, di scontrosità nei confronti del progresso, anche quello più elementare, che hanno onorato la “madre terra”. Con la zappa, però, chè il vero colono lo si riconosce da come la usa; vangare è molto più facile: c’è la bestia o la macchina, ma zappare è –oserei dire- un’arte, e la puoi imparare con la pratica, ricordando sempre che la terra è bassa. Quel tempo è scaduto.

Leggo di qualche giovane che ha ripreso -eroicamente?- quegli attrezzi in mano. Una stalla, un campo, le pecore, alveari: sembrerebbe un’inversione di mentalità, ma quale futuro aspetta loro? E poi, le imposizioni dell’Europa, che “dovrebbe” governare una ventina di stati, tra i quali spiccano i più forti, e che impongono, anche mascherandoli, i propri interessi perché non c’è il coraggio, o la capacità, di rendere armonico, sostenibile il nostro progresso nei confronti dei giganti mondiali. Infine, le restrizioni, dovute -per carità- nell’uso dei fitofarmaci. Dopo decenni di nessun controllo, improvvisamente si è abbattuta la scure del “mai più chimico”! Che belle parole! Domani, torneremo tutti a concimare con lo stallatico, anche quello umano, o no? Sono un ignorante, in questo campo, e come loro, m’immagino un mondo idilliaco e lontanissimi da quello che sto vivendo. Non conosco i progetti del futuro per cercare di far sopravvivere la nostra terra, la terra di tutti. Mi guardo dentro, e intorno, però e vedo nero. Oliveti e campi abbandonati; i cigli non segati; alberi da frutto di cui non si colgono più ciò che producono; le more che seccano sui rovi. E pruni, campi di pruni, foreste, quasi, che insidiano i boschi, tutti, meno quelli che resistono finchè i vecchi ce la faranno. E’ una visione fosca e pessimista, ma come si può pensare diversamente se ognuno di noi si fermasse a controllare ciò che ci circonda. Siamo arrivati al punto che già il taglio dell’erba, anche in città, è un problema, figuriamoci il resto. La terra ci vuole bene, ma oggi siamo impegnati da millanta cose: progetti, desideri, comodità, vacanze, sogni … e favole! Nessuno, o pochi che vogliono rallentare, non dico in macchina, ma anche a piedi; sì, la domenica ci sono le “camminate” ma mica tanto lente! Camminare è passeggiare. Andare per la propria strada, e ripensare, recuperare, rivivere ciò che siamo stati. Non tutto era bello, ma la perfezione non è di questo mondo. E poi, senza gli errori, le ingiustizie, le arrabbiature, che vita sarebbe? Sarebbe troppo bella, così come sarebbe troppo bello ciò che noi ripensiamo fosse la vita cinquanta, cento anni fa. La televisione e il cinema ce ne danno un ritratto che non affonda nella dura e cruda realtà.

Qua e là affiorano, oggi, scritti e filmati di come realmente fosse quella esistenza, e rimaniamo in parte delusi. Ma come ?, non era tutto bello? No, non lo era; purtroppo, emerge subito il paragone con questa nostra, e trovo che ormai ha vinto la comodità, sotto tutti gli aspetti, e al cinema i supereroi, le favole moderne. Ma la comodità la paghi, non solo con il soldi, ma anche con lo spirito di sacrificio che ha contraddistinto i nostri nonni e bisnonni, e di cui oggi è rimasto solo un vaghissimo ricordo. Lavorare la terra per sopravvivere. Ora, non solo non lo si fa, ma è addirittura impensabile. Ieri, famiglie numerose; oggi, scapoli, nubili perché è passato il messaggio che questa vita – breve o lunga – va goduta. “Già mi sacrifico al lavoro, figuriamoci se dovessi fare il contadino o il genitore!”. Scelta, o imposta, questa è la nuova età; e allora, cosa vuoi che m’importi della terra se non che sia sfaltata! Perché la macchina costa, il tempo è denaro, e non voglio scocciature per raggiungere i miei obiettivi. Da dove sono partito. Centocinquanta metri di strada bianca: che sarà mai? Polvere d’estate, buche d’inverno. Se la storia dell’uomo si deve arrestare davanti a questi ostacoli, che si asfaltino anche quei pochi metri! Si guadagneranno alcuni secondi, di elimineranno quei fastidi, quelle noie, e la sera, al ritorno a casa, potremo vantarci dell’asfalto che ci ha fatto guadagnare tempo e problemi per l’auto. Si mangerà meglio; saremo più soddisfatti, e l’ultimo tratto di quella stradina morirà con noi.