Quando H.P. Lovecraft trasse dalla sua penna la creatura più orribile della letteratura contemporanea, Chtulhu, pensò a cosa davvero spaventasse l’uomo: che teme chi ha imparato a dominare cielo e mare, stelle e pianeti, carne e spirito e, forse, presto, anche la morte? Solo ciò che non riesce a comprendere.

Nel corso dei secoli la paura si è di volta incarnata in un popolo straniero, in un’epidemia, in un gruppo di individui. In una società fluida come la nostra anche la paura ha assunto contorni indefiniti. Un tempo, Annibale, un barbaro giunto dalle coste d’Africa, aveva mostrato ai Romani quanto arrogante fosse il loro potere e a Canne le imbattibili legioni romane erano state battute. Col tempo la frase «Annibale alle porte» aveva cessato di connotare un pericolo reale ma si era ridotta a spauracchio per i bambini, come il nostro uomo nero. I ruoli si sono invertiti e gli eredi degli imperialisti romani hanno rivestito il ruolo di Annibale, ma con meno nobiltà, ovunque li spingesse la loro fame.

L’attività colonialista dell’Occidente è stata giustificata per secoli secondo un modello di assolutismo culturale che conferiva ai vincitori il diritto di imporre ai vinti interi schemi di pensiero – economici, politici, religiosi, artistici –, assieme a religioni, usanze e forme artistiche, in nome di una pretestuosa, e inesistente, superiorità oggettiva. Questo sistema mentale funzionava, e continua a funzionare nonostante il colonialismo come sistema di fatto non esista più. Nelle scuole studiamo la nostra storia, la nostra filosofia, in generale la nostra visione delle cose, tralasciando il resto. Usiamo come metro di giudizio la nostra superiorità. Ed ecco che tutti sappiamo – o dovremmo sapere – che nel 476 d.C. veniva deposto l’ultimo imperatore romano d’Occidente, ma non abbiamo idea di cosa stesse accadendo in quel momento in Australia o in Madagascar, e questa nostra ignoranza è perfettamente lecita, o almeno lo è stata per un po’.

Lo è stata finché l’uomo occidentale non si è confrontato con il totalmente altro. Nei territori europei esistevano certo gli «altri» – ebrei ed islamici, tanto per cominciare – ma erano minoranze familiari con tratti in comune. Tutto mutò nell’era delle scoperte geografiche, quando gli orizzonti europei subirono una dilatazione senza precedenti. Allora, alcuni intellettuali illuminati, primi tra tutti Michel de Montaigne, cominciarono a insinuare il dubbio che forse non esistono forme culturali superiori o inferiori, ma solo diverse. Un cannibale, scriveva Montaigne, può essere chiamato barbaro in considerazione delle regole della ragione ma non in rapporto agli Europei, che quanto a barbarie si sono dimostrati maestri. Il relativismo culturale e il particolarismo storico suggerirebbero che lo studio delle vicissitudini europee non dovrebbe essere condotto a scapito di quelle africane e asiatiche.

Come fare? Certo, il compito sembra arduo per i più; demandare tutto ai programmi scolastici, del resto, è impossibile. Continuiamo pertanto ad ascoltare il mondo per sentire unicamente la nostra voce: «Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa». Ecco ciò che è veramente spaventoso: pensare che fuori dal nostro safe space intellettuale esistano popoli con tradizioni, religioni, pensieri e millenni di storia completamente fuori dalla nostra immaginazione, riflettere su quanto sia limitata la nostra mente rispetto all’immensità del mondo. Ecco qualcosa di veramente terrificante, la ragione per cui la nostra non è misoxenia, «odio del diverso», ma xenofobia, «paura del diverso»; perché l’odio implica la conoscenza, per la paura è sufficiente l’ignoranza.

Più che ai tempi di Montaigne, siamo di fronte a una scelta ineludibile: accettare l’alterità oppure scollegarsi da internet, spegnere qualsiasi dispositivo elettronico, gettare via ogni eventuale strumento di comunicazione, imbracciare la maggiore quantità possibile di piatti tipici della propria zona, siano essi brigidini o polenta ai funghi, e partire per una vita solitaria sui monti in groppa ad un mulo, preferibilmente nostro compaesano. La contaminazione è ciò su cui si fonda la civiltà, contaminazione di pensiero, di tecnologie, di lingua, contaminazione di geni. Dissociarsi dall’altro significa dissociarsi dalla civiltà ed anche dalla natura umana stessa, poiché, come si legge in Aristotele da più di due millenni, «L’uomo è animale politico». Non dico di abbandonare il folklore o di tifare agli Europei Francia e Germania, ma solo di aprirsi alla possibilità che esistano altre tradizioni e altri campi di calcio.

Quanto questo impegno sia arduo lo dimostra il testo che – spero – state leggendo, in cui io, pur sostenendo la sostanziale parità delle culture, ho citato solo intellettuali occidentali. Tale mancanza non è ipocrisia intellettualistica; è al contrario segno della mancanza che ravvedo in me stesso di prospettive culturali altre ma al tempo stesso del fatto che abbracciare il multiculturalismo non comporta un abbandono del patrimonio che ci rende quel che siamo. La «superiorità», ammesso che esista, consiste nel sapere che nessuno è superiore e che l’unico strumento di avanzamento che possediamo, in quanto singoli e in quanto comunità, è la ragione, che condividiamo a livello di specie. Le differenze che ci separano le valutiamo istintivamente come verità di fatto, come ostacoli insormontabili; se vagliate con la ragione e il buon senso, invece, non possono che rivelarsi per quello che sono: costruzioni artificiali che ci corrodono fino a non lasciare nient’altro che odio dove prima c’era un essere umano, un cancro che ci fa temere il diverso come un bambino teme le ombre nella sua stanza buia. Ebbene, penso, e credo converrete con me, che sia giunto il momento di accendere la luce, di guardare dissolversi i mostri immaginari; di constatare, anzi, come non siano mai esistiti e come non fossero altro che le ombre proiettate dai nostri stessi corpi sulla parete.

 

Mille assedi

di Cloe Buralli

 

Mi sento la febbre di un dito

morsicato dalla

rabbia

per quel rabbino

così saturo di(s)somiglianza.

 

«Io non sono vicino a lui» – dico

ma codici di tolleranza mi pressano,

calpestano me con i piedi

nudi

come gli occhi di lui che bramo sano,

cristiano.

 

Abramo non approverebbe

E neppure l’Eva

le tue intuizioni superbe,

la tua dottrina cieca

eppure non cedi, ai mille assedi.

 

Disprezzo e vizio, il mio giudizio

dedotto dall’ignoranza,

pietanza apprezzata dalla maggioranza

di queste genti che tu solo vorresti

gentili.

 

Mi sento la febbre di un cuore

soggiogato dalla mano del cosmopolitismo

rispettosa, in questo ratto delle Sabine

mi lascerò incatenare

ormai alato, dal pregiudizio lontano.