L’accesso alla cultura ha sempre generato competizione: e la scuola, luogo per eccellenza deputato all’acquisizione della cultura, oggi non fa eccezione. Gli esempi, come al solito, ce li fornisce la Storia, e sono così numerosi che è difficile selezionarli. Nella Mesopotamia sumerica del IV millennio a. C. chi possedeva le chiavi della scrittura faceva parte di una casta potente e rispettata, quella degli scribi; essi, al termine di una scuola di formazione molto lunga e faticosa, avevano la possibilità di intraprendere carriere prestigiose: potevano lavorare alla trascrizione di manoscritti religiosi, gestire la contabilità dei palazzi o impegnarsi nei fiorenti commerci tra le città. Il loro lavoro era così rispettato e ben retribuito che il segreto della scrittura veniva tramandato di generazione in generazione, e suscitava rancori e invidie.
Lo stesso avveniva, più o meno nella stessa epoca, in Egitto, dove gli scribi, membri dell’aristocrazia che governava il paese collaborando con la dinastia reale, a differenza degli altri lavoratori conducevano una vita agiata e priva di fatiche. O almeno nella “Satira dei Mestieri”, un testo scritto tra il 2200 e il 2000 a.C., il mestiere dello scriba viene presentato in questo modo, anche se questi funzionari vivevano tra gli intrighi di corte e il rischio costante di perdere il favore del faraone di turno. I Romani fecero della cultura uno strumento di potere, costringendo le popolazioni conquistate a imparare la lingua latina, consapevoli che un impero si fonda sulla colonizzazione dell’immaginario, per citare lo storico Serge Gruzinski. E per loro, come prima ancora per i Greci, chiunque non fosse nato romano, chiunque balbettasse lingue incomprensibili al loro orecchio era, semplicemente, un barbaro. Per tutta l’epoca moderna, dalle corti cinquecentesche ai fermenti libertari delle società segrete e del Risorgimento, l’istruzione è stata fortemente elitaria; mancando un sistema scolastico diffuso, soltanto i nobili e il clero avevano accesso al sapere, e lo utilizzavano per demarcare nettamente i confini delle libertà (limitate) delle classi subalterne.
La borghesia si arroga tra Sette e Ottocento il diritto alla conoscenza, ma senza che questo si traduca nella volontà di estenderla. Bisognerà aspettare gli Anni Sessanta del Novecento per arrivare, dopo i primi faticosi esperimenti dell’Italia postunitaria, a una vera scuola di massa, in notevole ritardo rispetto ad altri paesi europei.
Il ’68, i cui fermenti di rivolta esplodono incredibilmente in contemporanea in quasi tutti i paesi del mondo, porta in primo piano proprio il problema della competizione che il sistema-istruzione aveva innescato fino a quel momento: una competizione tra le classi, più che tra i singoli individui, in cui i figli degli operai erano destinati alla sconfitta.
Solitamente sono queste le classi migliori: quelle in cui un piccolo gruppo di corridori forti pedala circondato da diversi gregari, e gli uni aiutano gli altri, con un passo che, visto dall’esterno, appare cadenzato e armonioso.