Ieri la nostra vita era disseminata di date (oggi è dominata dai numeri), e come s’imparavano in fretta! Quella della nascita era tra le prime, se non la prima. Le vecchie, care Elementari ti allenavano da subito la memoria con l’Aritmetica e gli eventi più importanti della Storia. era, diciamolo subito, una bella lotta quotidiana. Con i quadernetti dalla copertina nera, le esercitazioni manuali erano di tutti i giorni, con parole e numeri che li riempivano fino alla noia. Così s’insegnava, e così entravamo ufficialmente nel mondo dello studio, con calma e con lentezza, senza furia né scatti. Era lenta anche la Ginnastica, che si faceva spesso in classe: esercizi semplici e quasi sempre uguali ma, almeno, si riposavano le mani.
In compenso, c’era il pomeriggio – in autunno e in primavera – che, prima delle lezioni pomeridiane a casa, ci facevano sfogare correndo e saltando i cigli: altro che 3000 siepi! I primi quaderni riempiti li riponevamo quasi con orgoglio: essere stati capaci di coprire le righe bianche ed i quadretti con le nostre mani, già ormai segnate dall’inchiostro, ci faceva felici. Ci contentavamo di poco, e poco si chiedeva. Poi cominciarono a “piovere” le date, quelle grosse, importanti; però, erano tante, come si poteva fare?
Basta un tocco, ed hai la soluzione; noi, per fare una divisione o una moltiplicazione a 2/3 cifre, impiegavamo minuti, con tanto sudore, e le dita impregnate di nero e di bianco del gesso, tanto che sul grembiulino sembrava nevicato: fiocco azzurro per i maschi; candido per femmine, se ricordo bene. La prima ricorrenza che si festeggiava, era la festa dell’albero; tutti gli anni, a primavera, veniva piantato un alberello, e tutta la scuola assisteva a quella cerimonia. Allora, c’era da ricostruire, ripartire, ricominciare a vivere dopo la II° Guerra Mondiale. Era una bella festicciola, molto rustica, senza fronzoli. Tutti lindi e pettinati, con la brillantina e il fermaglio ai capelli ribelli; con le treccine e i fiocchini rosa per le femminucce. Era veramente una bella ricorrenza, anche perché non si scriveva né c’erano i compiti in classe: evviva! Come eravamo ingenui… Crescendo, perdendo la freschezza e il candore delle Elementari, gli impegni aumentavano, così come le ricorrenze. Ora, ognuna di quelle assumeva una ufficialità che era poco spontanea, e che quindi ti irrigidiva. Si entrava a far parte dello Stato Italiano, con l’inno ed i rappresentanti ufficiali, sindaco eccetera che, un po’ pieni di sé, continuavano a fare lezioni fuori dall’aula.
Così, anniversari di qui, anniversari di là, ti ripassavi la Storia Patria, almeno per le date più rilevanti. Insieme a quelle, gli anniversari familiari, momenti fondamentali, dal compleanno (bello, bellissimo avere tutti i componenti che ti festeggiavano, e si mangiava di più e meglio: ah, le patatine fritte!!), al matrimonio, che poi coinvolgevano zii e cugini. Anniversari, ricorrenze che volevano il loro spazio, e che, col trascorrere del tempo, c’erano quelli che rafforzavano il loro valore, e quelli che scivolavano, lentamente, nel dimenticatoio. Ce ne sono di simpatici e di noiosi; di allegri e tristi; quelli ai quali non vorresti partecipare, e quelli che, invece, vorresti ma non ti chiamano. E poi, infine, ci sono le nostre, che tirano le somme di un’ attività che ti ha visto protagonista con entusiasmo. Sono poche, ed è meglio così perché la passione e lo slancio che hai profuso non può essere diviso con gli altri, e quindi disperso. C’è del commovente, in tutto questo; in un mondo che sperpera troppo, che non riesce ad incanalare le forze verso obiettivi che lascino sfogo alla volontà non di apparire, di guadagnare, di primeggiare, non trovo la forza di far emergere quelle poche tante qualità che tutti noi abbiamo. Non è facile trovare una calamita che attiri i tuoi pregi, spesso nascosti ed imprevedibili. Io credo che possediamo caratteristiche che sottovalutiamo – inizialmente – e che, affiorando, possano trovare libero sfogo, appagamento, per chi le esprime e chi ne viene a conoscenza.
Questo mio lungo preambolo è dato dal fatto che il mensile al quale collaboro, “Il Cittadino”, festeggia quest’anno il suo 25° anno di attività. Io sono entrato tardi a farne parte, e non so se chi iniziò, è ancora in questi fogli. Posso parlare del mio ingresso, un po’ lontano, quando lui non era ancora maggiorenne, e di questo farò. “Il Cittadino” ha ormai una storia che fa parte del tessuto del comune pesciatino e del suo territorio. Quando ebbi l’occasione (ma fu un vero e proprio caso), di parlare con Sergio Silvestrini, suo creatore ed anima sino in fondo, di poter scrivere due righe sulla sua rivista, mi rispose con un sì pieno d’entusiasmo, tanto che mi stimolò, immediatamente, a prendere carta e penna, e partire senza sapere dove sarei arrivato. Sergio, ho capito dopo, era uno dei pochi, profondissimi conoscitori di Pescia e del suo quotidiano. Certo, era un giornalista, quindi avvantaggiato, allenato a scrivere di fatti importanti, e minimi, della sua città ma, soprattutto, dei suoi abitanti. Ne conosceva tanti, ma proprio tanti, e di loro sapeva molto: qualità, difetti, pregi, tic, caratteristiche speciali: una enciclopedia che consultava senza leggere perché tutto era catalogato dentro di lui. Attentissimo osservatore, e curiosissimo come di dovere, conobbi questo “giornalino” ancora per caso. Fu la copertina che mi colpì; e poi, anche i contenuti: profondi o leggeri, tutti di qualità culturale, o quasi, sopra la media anche perché a Pescia, diciamocelo, di quella non c’era abbondanza. Di sicuro, una pubblicazione non limitata a coloro che considerano il “sapere” un loro “pascolo” esclusivo, ma rivolta a tutti, e per queste ebbe da subito un bel successo. Io ne sono arciconvinto di questo: chi scrive è al servizio del lettore e, se pretendi di fare l’inverso, pochissimi ti seguiranno. Perché anche le piccole storie quotidiane fanno partecipare, coinvolgere i lettori con uno spontaneo: “Ma così la penso anch’io! Ma è successo anche a me”, senza mai, dico mai, toccare il tasto della politica, che può catturare qualcuno, ma che la stragrande maggioranza ne ha le tasche piene, a anche qualcos’altro.
Tutti vi potevano (e possono) scrivere di tutto, meno di ciò che ho appena scritto sopra. E anche niente poesie, e niente necrologi. Queste erano le regole, e così si sono aperte le porte ad una partecipazione spontanea e vivace per una città che non riesce ad uscire dal suo grigiore. Tanti, ne sono passati su queste pagine; 25 anni sono 300 mesi, e non sono pochi. Non ho contato chi entrava e chi usciva, ma una certa selezione era quasi naturale, e Sergio controllava quotidianamente l’andamento del gradimento o meno di un collaboratore. Credo non abbia precluso a nessuno un articolo, o pochi più, ma sapeva benissimo chi “funzionava” o meno. Era il deus ex machina, il trascinatore, come dicevano i latini, un popolo che ci ha preceduto e di cui noi non abbiamo preso le sue qualità al punto di togliere dalla circolazione la sua lingua, riservata, ormai ai pochi romantici. Certo, aveva una debolezza dettata dal cuore che batteva rosso-nero, ma chi non cede a qualche affetto particolare? E una rivalità mai nascosta con Montecatini. Poi, lui se ne andò, improvvisamente, anche se qualche acciacco già era presente. E subentrarono la “Premiata Ditta Gianni e Luca S.”. I tempi erano cambiati. Sempre più difficile, complicato, costoso mantenere in vita il periodico, e trovare nuovi sponsor: è l’Italia di oggi. Queste difficoltà, comunque, non hanno rallentato la pubblicazione, ma hanno aumentato i grattacapi della “Ditta”. Nuovi scenari si aprono, che interesseranno i lettori ma non i collaboratori. E’ la nuova tecnologia che pretende i riflettori. Bisogna adeguarsi, se vogliamo tenere il passo della modernità, che è così rapida che io mi sono trovato, improvvisamente, in retroguardia. Il risultato? Al massimo, mi daranno la maglia nera per la mancata applicazione alle nuove scienze meccaniche.
Che ci posso fare? La mia piccola felicità è prendere un foglio di carta bianca ed una penna: l’esame lo faranno i lettori. E credo che nella vita poche soddisfazioni siano più belle di quelle di potersi far leggere; di far conoscere, partecipare gli altri alle tue esperienze, ai tuoi sogni, a qualche sconfitta inevitabile. E credo che tutti i colleghi la pensino come me. Ormai, ne sono convinto, “Il Cittadino” non è più una rivista: è un amico, al quale confido i casi della mia esistenza, che non hanno niente di clamoroso se non lo scopo di rendere il mio quotidiano più leggero, meno pessimista, sereno e, spero, anche quello dei lettori. E’ il venticinquesimo anniversario della sua nascita: tanti auguri, “Il Cittadino”, da me e da tutti i collaboratori, ed a tutti i lettori che ti apprezzano. E lunga vita ancora, sia la tua che – scusami – anche la mia! Grazie!!!